cari Maneskin

Avete spaccato con Beggin. Bravi: arrangiamenti perfetti, sesso, ritmo, voce giusta, video che funziona. Provocazione e citazioni come si deve. Siete bravi e avete indicato il rock a chi non lo ha mai conosciuto. Ma questa sera ho assistito a un evento che mi ha fatto capire una cosa.

Concerto rock di un gruppo di quattro donne: basso, batteria, chitarra ritmica e chitarra solista. Due a cantare: la batterista e la chitarra ritmica. Non erano eccezionali e forse il tecnico del suono non era un mostro per cui il tutto era spesso caotico. Hanno suonato diversi classici aprendo con due brani: Born to Be Wild e Paranoid. La miscela di acustica, suono, esecuzione musicale poteva essere fatale anche per quelle due canzoni ma non è stato così. A dispetto di tutto, i riff arrivavano dalla ferita pulsante del cuore umano che grida dolore, disperazione e desiderio di vivere e poi andavano dritti nella mente.

Perché gli autori delle canzoni erano immersi nella ferita della vita, nel centro di un cuore abbandonato da cui hanno tratto riff, ritmo, giro di basso e voce. E da quella tempesta rossa, violenta, indifesa e impietosa ci guardano dritto negli occhi. Cari Maneskin, siete bravi ma mi pare che siate fuori da quella tempesta. Dove è il suono essenziale che echeggia dal profondo delle spaccature del cuore pensante? Perché quelle musiche facevano tremare e commuovere anche se erano suonate da un gruppo di dilettanti, che brandivano impacciate le chitarre. Come le note di apertura della Quinta sinfonia di Beethoven, che non sono una melodia, non sono introdotte da alcun abbellimento o canone sinfonico ma vanno dritte al cuore del problema, senza mezzi termini, senza scuse o ammiccamenti. In tutti questi casi si tratta del risuonare del cuore umano che dal fondo della disperazione cerca un barlume di luce, costi quello che costi. E creare quelle musiche ha dei prezzi.

Il primo è estetico: non sono belli, curati o ricercati. Non hanno neanche la sofisticazione del suono sporco conservato, o costruito, in studio. Sono ruvidi ed essenziali. Scandalosi e brutali. Non ammiccano ma impietosamente si installano negli ascoltatori costringendoli a riconoscersi come assetati di vita e soli. Sono il condensato musicale dello Straniero di Camus.

Il secondo è esistenziale. Cantanti e autori hanno conosciuto la solitudine, la perdita della fama o la droga fino a rischiare la vita. La loro non è la musica che accarezza anche quando vuole essere provocatoria per conquistare pubblico e perciò il pubblico li lascia andare alla deriva.

Ma basta che una banda un po’ scalcinata inizi quelle canzoni che si accende qualcosa in chi li ascolta. Forse ricordano a tutti che “la tua anima non è morta”. Resta il fatto che risiedono in noi come se fossero sempre stati lì mentre cerchiamo di vivere senza impazzire.

Cari Maneskin, cosa resta dopo la vostra canzone? Una notte di sesso, con qualche mugolio di piacere o la soddisfazione compiaciuta per averlo fatto attenendosi al canone della trasgressione. Assaporando il sapore della stranezza fra le calde coltri del proprio lettuccio, nel sicuro della propria casuccia. Certi che oggi sarà come ieri e ogni cosa è al proprio posto e soprattutto lo scandalo della vita è dove deve essere: fuori dalla porta.

Blues Brothers

Quando uscì questo film avevo 17 anni, o giù di li. Non capivo nulla aderendo perfettamente allo stereotipo dello studente presuntuoso, ideologico e convinto di essere libero nei propri giudizi.

Il liceo, poi, era stato un bagno nelle certezze politiche e sociali che cominciavano a incrinarsi dopo il rapimento Moro. Ma era soprattutto l’estetica a essere compromessa: impegno e commedia cinematografica americana erano del tutto incompatibili. Guai a ridere delle americanate!

Alcune battute, però, hanno superato la corazza dell’ideologia: “io odio i nazisti dell’Illinois”, “Le cavallette!”. E poi le musiche, e i musicisti James Brown, Cab Calloway, Ray Charles e Aretha Franklin. La inarrivabile Carrie Fisher. La distruzione del supermercato e l’inseguimento Blues Brothers da parte di tutti: polizia, esercito, Swat Team, nazisti, guardia a cavallo.

Per capire la grandezza del film ho impiegato decenni. La verità di quella cosa che è il bisogno di amare ed essere amati; la fatica di vivere fra oggetti tutti uguali quando ciascuno di noi è irrimediabilmente e inevitabilmente diverso e simile a tutti gli altri; la capacità di donare come atto di libertà.

Il film conteneva molto degli anni Ottanta e qualcosa di profondamente americano, nel bene e nel male. Io nel frattempo ho imparato che l’estetica è il primo luogo distrutto dell’ideologia.

clash ma non solo: I fought the law

Dal 1959 una canzone profondamente americana, poi rifatta da inglesi. Anche in questo caso, il rock va dritto all’essenziale: ho combattuto la legge e la legge ha vinto. C’è qualcosa del calvinismo anglosassone che risuona nelle chitarre, che traspare nel ritmo da ballo della canzone. L’angoscia di chi ha violato la legge era già apparsa nel 1945 quando il cinema americano aveva avuto Detour, storia di un musicista squattrinato e omicida. Qui il ritmo potrebbe anche essere il camminare balzellante dei carcerati incatenati.

Dal profondo della Guerra Fredda, prima di tutto una canzone di una manciata di minuti così semplici, diretti e netti. Poi sono arrivate le canzoni che hanno dato la fama a chi voleva il mondo e subito, a chi voleva dare alla pace una possibilità, a chi “noi siamo da una parte e voi dall’altra”, a che combatteva nelle strade, a chi “i vecchi stanno svanendo e con loro la vecchia legge”. Una manciata di minuti durata per almeno trent’anni.

Riporto tre versioni e aggiungo una nota a margine. Questa canzone è spesso usata dai poliziotti americani.

The Crickets, 1959

Tutti in giacca e cravatta. Facce sorridenti. Ma una canzone dirompente. La superficie educata nasconde molto.

Bobby Fuller, 1966

Notevole che la legge sia rappresentata da ballerine con tanto di pistola e costumi aderenti. Chi viola la legge è un fidanzato infedele che deve essere punito? La liberazione sessuale dei giovani è la violazione delle consuetudini antiche?

The Clash, 1979

In fondo ha qualcosa di troppo. Come se ci fosse un compiacimento nel violare la legge assente nelle versioni precedenti. O magari ci sono solo troppi Clash e poca canzone.

it’s never too late: ace of cups

Ace of cups: gruppo di sole donne fondato nella baia di San Francisco, tiene concerti fra il 1967 e il 1972. Jimi Hendrix le elogia. Tuttavia non firmano con nessuna delle case discografiche che le contattano. Per diverse ragioni scompaiono nel 1972 ma riappaiono nel 2018 con energia, ritmo e voce da vendere. Due video: allora e ora, diverse canzoni, epoche totalmente diverse. Qualche ruga in più e una leggerezza gioiosa e vitale.

essenzialità e rock

Ora molti critici rivedono il loro giudizio sul rock e iniziano a considerarlo come una forma d’arte. Alcuni studiosi hanno individuato una cadenza rock da aggiungere a quelle tradizionali come quella plagale. Il Nobel a Bob Dylan ha stabilito in modo definitivo che neanche i testi rock sono cosucce. Poi ci sono studi più o meno seri e completi sui testi, sui risvolti sociali. Ricordo anche un confronto fra A day in Life dei Beatles e The Waste Land di Eliot.

Devo dire che tutto ciò riscatta culturalmente il rock ma orbita attorno al nucleo senza toccarlo.

Il rock è ricerca dell’essenza. E intendo essenza nel suo senso più impegnativo. Una buona canzone rock non concede nulla ai fronzoli, alle “menate”, come diceva Finardi. Sono tre, quattro accordi che devono arrivare dritti al cuore della cosa: amore, desiderio, paura, rivalità, tenerezza, solitudine. Non c’è tempo e voglia per soffermarsi sui particolari.

E la faccenda di raggiungere il cuore delle cose, carpirne il segreto e portarlo alla luce è rischiosa. Gli esempi mitologici sono eloquenti: Prometeo paga con una pena sempre nuova il dono del fuoco agli uomini. Così molti eroi del rock pagano con la vita quella danza in bilico fra il sublime e il ridicolo con cui celebrano il rito primordiale di mostrare a un pubblico ignaro l’essenza drammatica e gioiosa della vita.

Golden Slumber, Beatles

Da Abbey Road

Il vero ultimo disco dei Beatles. Paul McCartney, su pressione del produttore Martin che spingeva affinché pensassero «in modo sinfonico», inventa una suite che copre la facciata B quasi per intero. La parte finale, una manciata di minuti tirati all’estremo in cui rock, musica classica, côté indiano, ironia, dramma, chitarre e batterie soliste, rabbia, risentimento, domande senza risposta e amore si mescolano lasciandomi attonito. Il crescendo ti lascia con il sentimento confuso che si prova quando si è assistito e ascoltato a un evento conclusivo, come in A Day in Life. Un evento che sovrasta le parole e il pensiero analitico. Tutto comincia da Golden Slumbers perché ha un nucleo, personale, dei Beatles e generazionale, ostico:

Once there was a way
To get back homeward

Once there was a way
To get back home

Una volta, Yesterday, c’era una strada per ritornare a casa, quale che fosse. Una volta c’era modo di tornare. Ora non c’è più e perciò ci resta la consolazione di una ninna nanna, dolente, di qualche assolo di chitarra elettrica e batteria messe lì a sintetizzare un decennio salutato con affetto. Ma sopratutto una sorta di misura universale, espressa in The End:

Oh yeah, all right
Are you going to be in my dreams
Tonight?

And in the end
The love you take
Is equal to the love you make

Nel sogno apollineo di fronte allo smarrimento totale l’amore può darci un riconoscimento?

Fra le due Carry that Weight: il peso della vita, dello scioglimento dei Beatles, della casa che non c’è più, delle domande mai poste e delle risposte mai date.

STORIA COMPOSITIVA

Il testo di Golden Slumber riprende, modificandola, una poesia scritta del 1603 da Thomas Dekker; McCartney improvvisò la musica per la sorellastra Ruth. E’ utile ricordare McCartney non sapeva leggere la musica. Con quella improvvisazione andò in studio di registrazione.

Gli assoli di chitarra sono di Lennon, Harrison e si può ascoltare l’unico assolo di batteria di Ringo Star.

Fonti

https://www.beatlesbible.com/songs/golden-slumbers/
http://www.beatlesebooks.com/golden-slumbers
https://www.songfacts.com/facts/the-beatles/golden-slumbers

Red House. Hendrix

La canzone è un blues che riprende e sviluppa temi musicali, e non solo, della tradizione. Da un lato canta la delusa desolazione di un uomo che, dopo un’assenza di 99 giorni e mezzo, torna a casa, Red House, per incontrare la propria donna che nel frattempo è andata via. Nel testo l’uomo scopre che la chiave non entra nella toppa. La conclusione è, però, inaspettata: l’uomo si consolerà con la sorella dalla donna. In un inserto parlato Hendrix aggiunge che “thats alright i still got my guitar”: “va tutto bene perché ho ancora la mia chitarra”, proclamando così la sua poetica: la musica è libertà, eros, distruzione, dramma, esperienza della soglia. Il tutto espresso con una maestria tecnica e musicale eccezionale. E la sua genialità prorompe da ogni nota.

La canzone ha diversi strati. Dal bassista Noel Redding sappiamo che riguardava una ragazza che Hendrix frequentò al liceo, Betty Jean Morgan; secondo il fratello del chitarrista, Leon Hendrix, la canzone si riferisce anche la sorella Maddy; secondo altri (Shadwick) fu ispirata da Linda Keith, la ragazza di Keith Richards e una fra le prime sostenitrici di Hendrix. Keith riferisce che nell’estate del 1966 lei ed Hendrix passarono molto tempo assieme in un appartemento di Manhattan, che aveva muri e decorazioni rosse.

Ma ci sono anche altri significati. La “casa rossa”, che per alcuni non esiste o è il termine con cui si indicavano i bordelli, ha anche un risvolto ulteriore, meno evidente e più simbolico. Nella mitologia Hopi, ricodiamoci che Hendrix era di origini indiane, un tema ricorrente è la “casa Rossa del Sud”, un centro religioso in Messico noto come Palatkwapi. La città era divisa in tre settori il primo dei quali, con una rozza struttura piramidale era riservato alle pratiche religiose. Gli iniziati al cerimoniale religiosi venivano istruiti da esseri incorporei, i Kachina, e quanto più crescevano in sapienza tanto più salivano all’interno della piramide. Al quarto livello gli adepti imparavano a conoscere i pianeti, le stelle, e “la porta aperta” che si trovava nel punto più alto della testa e che non doveva mai chiudersi per permettere loro di parlare con il creatore. Se si prende la via che devia verso sinistra, ovvero si perde la fede, allora lo spirito umano non può più uscire e conoscere il Cosmo. Hendrix non può più entrare alla “Red House” e gli resta la sorella della prima amante e la musica. La poetica di Hendrix si rivela molto meno “canzonettara” di quello che potrebbe sembrare in quanto si inserisce in piena modernità, con la sua consapevolezza dell’impossibilità di un ritorno al tempo consolante e allo spazio ordinato del mito.

Storia compositiva

La prima apparizione ufficiale si ha con la Jimi Hendrix Experience con Noel Redding e Chas Chandler nel 1966 (13 dicembre) e fu scritta a partire da una canzone composta nel 1965 quando ancora suonava nella band di Curtis Knight and the Squires. La prima edizione fu nella versione inglese dell’album di debutto Hendrix, maggio 1967 “Jimi Hendrix Experience”, e nel luglio del 1969 apparve nella versione americana Smash Hits. Hendrix la suonò durante quasi tutti i suoi concerti, compreso l’ultimo tenutosi a nell’isola di Fehmarn per il “Love and peace festival”, il 6 settembre 1970.

Fonti

H. Shapiro, C. Glebbeek, Jimi Hendrix. Una foschia rosso porpora, Arcana, Roma, 2010.
E. Assant, G, Castaldo, Blues, Jazz, Rock, Pop. Il Novecento americano, Einaudi, Torino, 2004.
Song meaning: https://songmeanings.com/songs/view/18293/
Song fact: https://www.songfacts.com/facts/jimi-hendrix/red-house
Red House: https://jimihendrix.fandom.com/wiki/Red_House

notte, stelle e amore

Aggiunta del 18 aprile 2021 la sezione su Will You Love Me Tomorrow, scritta da Carole King e cantata da Amy Whinehouse.

La triade notte, amore e stelle è frequentata dall’alba dei tempi ed è prossima all’eternità. Se è notte e ci sono degli amanti, allora emerge la meraviglia per un cielo stellato noto solo a chi si ama. Quattro canzoni sulla notte stellata degli amanti.

  • The Dark End Of The Street, scritta da Dan Penn, Chips Moman, versione originale di James Carr. 1968;
  • The Way Young Lovers do, scritta da Van Morrison, pubblicata in Astral Weeks, 1968;
  • Because the Night, scritta da Bruce Springstein, prima versione nell’album Easter di Patti Smith, 1978.
  • Will you still love me tomorrow, scritta da Gerry Goffin e Carole King nel 1960. Ne esistono diverse interpretazioni di una grande quantità di artisti, in questo post faccio riferimento alla versione di Amy Winehouse.

The Dark End of the Street

La canzone riprende la vicenda reale di un uomo e una donna che possono incontrarsi solo di notte perché amanti clandestini. I due sono ladri di felicità pronti a pagare la loro colpa di traditori. In futuro, forse, potranno mostrarsi in pubblico ma fino ad allora la visibilità è vietata; anzi, se mai si incontrassero alla luce del giorno, non si saluteranno e faranno finta di non conoscersi. Cosa può valere un prezzo così amaro? Un bacio forte come il vento, tenero come la notte; una bacio da proteggere dalla vergogna del giorno.

The Way Young Lovers do

Qui abbiamo due giovani che camminano lungo sentieri di campagna alla luce del giorno sotto la pioggia per ritrovarsi amanti nella notte. Immersi in quella specie di luminosa naturalezza della giovinezza giocano ma è solo con un bacio notturno che si scoprono sotto un cielo stellato, terribile e meraviglioso, in cui “tu sei per me e io sono per te” (Then we sat on our own star and dreamed of the way that I was for you/And you were for me/Ah, we long to dance the night away). In una danza erotica, la giovinezza si perde nel momento stesso della sua scoperta.

Because the Night

La versione è di Springstein, che donò la canzone a Patti Smith. Nella notte non c’è più la vergogna degli amanti clandestini e neanche l’ingenuità della gioventù persa a passo di danza. Gli amanti hanno pagato il prezzo del vivere con battaglie quotidiane; ognuno, avendo imparato chi non è, trova rifugio nelle mani dell’altro. Ora l’abbraccio in cui “tu sei per me e io per te” non ferisce, none can hurt me now, e il dolore del giorno si scioglie nel piacere di un abbandono nel buio. Forse dopo, quando si tratterà di portare alla luce l’amore, gli amanti si feriranno, e profondamente, come ricorda Amore a Psiche. Ma ora nella notte, le mani accarezzano i corpi seguendo sulla pelle i percorsi delle aspre ferite incise dalla vita e li tramutano in una costellazione nota solo agli amanti. E quella notte in cui l’abbraccio trasformò il dolore in una costellazione di piacere, di fiducia e fragilità; quella notte in cui le mani toccarono con delicatezza una rigogliosa vita nuova; quella notte, quelle mani, quel piacere, quelle stelle saranno un ricordo da proteggere dal rimprovero silenzioso di non essere stati capaci, o abbastanza coraggiosi, da adempiere a quella promessa incisa sulla pelle e in cielo.

In conclusione, Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder) dei Beach Boys da Pet sounds, in cui si ascolta il battere del cuore come fosse un tamburo lontano che scatena la vita.

Will you still love me tomorrow

La canzone ha un risvolto romantico molto pronunciato: il contrasto fra la verità notturna, intima e misteriosa vissuta nei sospiri degli amanti e la violenza della luce del giorno che domina gli Inni alla notte scritti da Novalis. Certamente, il collegamento al Romanticismo tedesco non deve essere esagerato poiché non esistono riferimenti noti fra la canzone di Goffin e King e Novalis, non di meno mi interessa. La notte è il tempo degli amanti, ma cosa resiste alla luce diurna, violenta e intrusiva, dell’intreccio muto di parole sospirate sulla pelle e inciso con gli abbracci? Nella versione originale della canzone il dubbio sulla tenuta dell’amore notturno alla luce del giorno ha un evidente significato morale: l’appagamento del desiderio soddisfatto può svanire alla luce del giorno.

Ma l’interpretazione di Amy Winehouse, per quanto di autobiografico implica, suggerisce un’interpretazione ulteriore. Gli amanti fusi l’uno dell’altro sapranno riconoscersi e ritrovarsi alla visione delle differenti individualità oppure la dissoluzione avrà il sopravvento e l’equilibrio fra Eros e Thanatos inclinerà verso la morte? Gli amanti saranno capaci di salvarsi reciprocamente o reciprocamente si distruggeranno?

easy rider, nostalgia per ciò che non sono stato

Voglio tornare a quelle moto, a quella speranza che per essere liberi bastasse una moto, una giacca di cuoio, qualche centinaio di dollari in tasca.

E poi quelle strade lunghe, aperte, dritte fatte apposta per correrci alla velocità giusta: né troppo lenti né troppo veloci. Sentire con il corpo e la mente di essere ovunque nello spazio e nel tempo ma allo stesso tempo di respirare qui e ora, immersi nel profumo del sole, della notte e della vita.

E quella bella sensazione degli stivali appoggiati sul pianale della moto che viaggiano sulla strada come se fossero i calzari di Mercurio.

E quella giacca di cuoio che sei come un Dio fra gli uomini e una tentazione per le donne.

Ma sopratutto la libertà di viaggiare, perché quello che conta non è la destinazione ma il viaggio, iniziarlo e proseguirlo. Oggi, domani e anche ieri.

Ma poi li hanno uccisi quei due che viaggiavano liberi, con i loro stivali e tutto il resto; loro che viaggiavano senza offendere nessuno, senza altra bussola che gli stivali e la moto.

Vorrei averle provate queste sensazioni, sulle strade degli Stati Uniti con quelle moto, con quelle giacche e quegli stivali.

Vorrei averla provata quella libertà assoluta come ti accade una volta nella vita quando sei giovane e non sai ancora tutte le necessità che ti porti nella carne fin dalla nascita.

Fra tutte le musiche inserisco The Ballad of Easy Rider perché suggerisce qualcosa di quella libertà che forse consiste nel lasciarsi andare al fluire della vita e della morte: The river flows, it flows to the sea/Wherever that river goes that’s where I want to be. Libertà è essere tutt’uno con l’essere? A margine: questi due versi sono di Dylan.

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you can’t always get what you want

Canzone dei Rolling Stones nel disco del 1969 Let it bleed, (Lascia che sanguini). Credo che sia una delle poche canzoni degli Stones che meriti di essere ricordata. Le maggior parte essendo piccoli capolavori di inconsistenza musicale condita con pose da artisti maledetti.

Canta una cosa semplice: non puoi sempre avere quello che desideri. Ovvero che il desiderare qualcosa non implica averla. E’ la cosa più banale da dire e la più difficile da ripassare quotidianamente. Alla base della maggior parte delle religioni, delle dottrine morali, delle concezioni della realtà e della fantasia, ci facciamo i conti tutte le sere, quando si fa il riassunto della giornata e il “calcolo dei dadi non torna”. E si deve lasciare andare come perduto per sempre quello che manca all’appello, altrimenti perdi il presente mentre insegui il passato. Ogni sera si lascia andare ciò che oggi non è stato per lasciare spazio a ciò che forse sarà ma che si dovrà comunque lasciare andare. Di contro, la frustrazione ci riporta all’essenziale di ciò di cui abbiamo bisogno, senza capricci o fronzoli isterici.

Nella canzone si parla di donne sanguinarie, di uomini prossimi alla morte, di manifestazioni in cui si viene picchiati e così via. Nel video Mick Jagger fa dei gesti decisamente irritanti: ma perché si dimena in quel modo? Ma che senso hanno quelle braccia agitate così? Però la canzone è bella. Molto bella. Nella versione originale su disco un coro di voci bianche come se fosse un coro di angeli scesi a rasserenare l’umanità tormentata.

Nota

Ad ascoltare la canzoni dei “favolosi anni Sessanta” viene da pensare che siano stati meno entusiasmanti di quanto si dica. Sulle due sponde dell’Atlantico abbiamo: consolazione per dolore; incoraggiamento per quando si è soli in un mondo ostile; insoddisfazione impossibile da contenere; richieste d’aiuto; crisi nervose; verità che si tramuta in falsità. E così via.