quale allegria, da lucio dalla

Lucio Dalla con questa canzone ha messo in musica uno dei sentimenti più difficili da provare: la consapevolezza della violenza presente nei rapporti umani, d’amore, d’amicizia, di lavoro, di parentela.

Non ne spiega l’origine ma descrivendone la fenomenologia quotidiana accenna a un’ombra che lentamente scarnifica anche i sentimenti più delicati. La canzone apre su un rapporto d’amore, forse ormai consumato dai gesti quotidiani, che cerca un senso nel perdonarsi dopo essersi feriti. Poi c’è la giornata scandita inesorabilmente dalla monotonia. Poi lo spettacolo del cantante su un palco di fronte a un pubblico anonimo. Poi il convincersi che tutto stia nell’arrivare in salute al gran finale. Poi i ringraziamenti a un certo Andrea, per i pasti malmangiati, i sonni derubati. Infine l’essere stati accoltellati nel buio di un vicolo per quindici anni la sera di Natale.

Non è la ripetitività in sé a essere il problema. Forse tutto sta in quel sacrificio primordiale compiuto la notte di Natale, quando nell’illusione di un rinnovamento della vita, il più debole, e fiducioso, viene ucciso permettendo così ad altri di vivere. Nella ripetizione dell’accoltellamento sacrificale si cerca un senso della vita.

Credo che la grandezza di Dalla risieda nell’aver cantato le nostre emozioni di sacrificati esposti con le nostre debolezze, le nostre stranezze e la nostra tenace capacità di amare, alla violenza degli altri. Vengono in mente altre canzoni: Anna che voleva morire, Marco che voleva andarsene lontano, il nato il 4 marzo, il ballerino che balla senza posa. E poi quelle due donne esagerate e affascinanti con cui apparve nel video “Attenti al lupo” oppure Caruso che canta per amore e cantando muore. Oppure Lucio Dalla stesso che si mostrò nella sua fragilità quando ormai avanti negli anni si fece impiantare i capelli a nascondere una calvizie più che decennale. Sentimenti e pensieri scandalosi al confine fra il ridicolo e il sublime, fra il comico e il tragico, fra l’ironico e l’appassionato che portano il sigillo dell’amore incondizionato per il vivere, non ostante il dolore del sacrificio.

Solo chi ha scoperto la difformità può essere cosi.

commozione

Leggo di due genitori il cui figlio è morto per un’otite curata con l’omeopatia, consigliata da un medico testardo e insensibile. Poi ci sono i morti di Manchester: ragazzine e ragazzini dilaniati dall’esplosione, dai chiodi nascosti nella bomba; e le famiglie degli attentatori che hanno dedicato la loro vita a vendicarsi, forse anche per reali torti subiti.

Ma è umano sciogliersi in lacrime per il bambino morto nel dolore e anche per quei genitori che hanno preferito al dolore del figlio una cieca fedeltà a un dottore ricattatorio. Lo stesso loro dolore li ucciderà. Non insultiamoli per la loro ingenuità perché qualsiasi cosa potremo immaginare sarà solo una percentuale infima dell’inferno in cui vivono. E’ uno di quei casi, rari per fortuna, in cui il dolore è già la pena.

Per i padri degli attentatori forse vale “Perdonali perché non sanno ciò che fanno”.

Questi eventi mi hanno fatto cercare canzoni, filmati, scene su Facebook, Youtube di solidarietà, di semplici, buoni e onesti gesti quotidiani. Mi sono commosso.

Ma non voglio solo la commozione estetica della canzone o del gesto pubblico che attenui nella momentanea solidarietà fra i vivi l’irrimediabilità della dissoluzione. Così come non voglio annacquare in un pianto rassicurante l’orrore che mi suscitano certe anime oscure. La morte subita perché è stata permessa nell’indifferenza o perseguita nel rancore, può essere riscattata dalla quotidiana, inconsolabile commozione di chi resta e oppone alla dissoluzione atti che rendano il mondo migliore per quante più persone possibile. Forse è solo nell’etica compassionevole che può trovarsi una via d’uscita.

Fonte dell’immagine: http://www.ilpost.it/2017/05/25/foto-minuto-silenzio-attentato-manchester/minuto-silenzio-17/.

sentimenti indescrivibili

Su Pinterest ci sono immagini di tutti i tipi. Per caso mi sono imbattuto in una intitolata Sentimenti difficili da descrivere che elencava una serie di termini strani, reali e inventati. Fra tutti mi ha colpito il termine sonder di cui ho trovato questa definizione su urban dictionary:

Originale: Briefly, the realization that each random passerby is living a life as vivid and complex as your own.
Traduzione: in breve, la comprensione che chiunque ci passi accanto casualmente stia vivendo una vita tanto vivida e complessa quanto la propria.

Scarna definizione che riduce quella più ricca del dictionary of obscure sorrows:

Originale: the realization that each random passerby is living a life as vivid and complex as your own—populated with their own ambitions, friends, routines, worries and inherited craziness—an epic story that continues invisibly around you like an anthill sprawling deep underground, with elaborate passageways to thousands of other lives that you’ll never know existed, in which you might appear only once, as an extra sipping coffee in the background, as a blur of traffic passing on the highway, as a lighted window at dusk.
Traduzione
: la comprensione che chiunque ci passi accanto casualmente stia vivendo una vita tanto vivida e complessa quanto la propria – popolata di ambizioni, amici, abitudini, preoccupazioni e pazzie (tare?) ereditarie – una storia epica che continua attorno a te, come un formicaio disteso in profondi sotterranei, con intricati sentieri verso migliaia di altre vite della cui esistenza non se ne saprà mai nulla e in cui appariremo solo una volta, come uno sconosciuto che sorseggia il caffé in fondo alla sala, come un’immagine confusa nel traffico dell’autostrada, come una finestra illuminata al crepuscolo. 

Esiste anche un filmato.

L’illustrazione di sonder è difficile perché ha diverse implicazioni e sfumature. La prima è la decentralizzazione di sé stessi: da un universo tolemaico di cui siamo il centro a uno in espansione. La luminosità in cui ci collochiamo si affievolisce in una rete di cunicoli interconnessi con individui ignoti ma simili.

C’è quel perdere sé stesso e trovare gli altri nella scenografia della vita. Questa ambientazione del vivere nel reticolo, in penombra ma epico, dell’universo degli altri non è solo comprendere che il proprio e l’altrui dolore sono la stessa cosa. Sonder è comprendere la complessità, l’unicità e la somiglianza con un prossimo qualsiasi che mi passa a fianco, mettendomi a un margine del palco complessivo della vita.

sole, settembre e ricordi

E’ possibile descrivere e raccontare la vita vissuta fra i 7 e i 13 anni? Di quegli anni ricordo le vacanze, che passavamo da giugno a settembre, in Valle Gesso, Cuneo. Tornavamo a Torino il giorno prima dell’inizio della scuola in una condizione di completa e irrimediabile impreparazione scolastica.

Era una località fuori mano e questo permetteva ai nostri genitori di lasciarci liberi di scorrazzare per la strada del paese e sulle montagne. Erano mesi felici e forse lo sapevamo. E’ quasi impossibile descrivere cosa sia la felicità a 10 anni o a 11 o a 8. Il sole, la libertà, la bicicletta, una audio cassetta con della musica, gli amici con cui giocare. Mangiavamo del pane all’olio con la Nutella che ci preparavamo da soli. Scalavamo gli alberi e risalivamo il fiume. Durante le gite cercavamo cespugli di lamponi e more e le mangiavamo con metodo e concentrazione. Incuranti di tutto.

Ciò che resterà per sempre in me sono il sole del tardo pomeriggio e gli odori dei boschi. Se a settembre c’era il sole trascorrevamo un mese pressoché estatico fatto di giornate che si accorciavano, limpide e con le foglie che si ingiallivano. L’odore della resina dei pini mescolata alla terra umida e fungosa. Il freddo la sera e il caldo il giorno. Le strade senza auto e il silenzio sovrastante.

Ricordo con struggimento il tardo pomeriggio, il sole caldo e i villeggianti della domenica che andavano via. La montagna e la sua luce erano nostalgià già allora. Non c’era il tempo per pensare, ma neanche il desiderio di farlo. Solo l’impulso vitale a slanciarsi verso il giorno successivo nell’impressione che l’eternità fosse a portata di dita.

Quell’odore mi accompagna da allora. Mi stordisce e mi entusiasma ancora, come se potessi ancora immergermi e amare la terra, il sole e gli alberi. Talvolta camminando per alcuni posti di montagna lo sento, allora mi giro di scatto sperando che l’aria si squarci e mi faccia ancora vivere quella luce e quella nostalgia.

bob dylan

Scriverò di Bob Dylan e so che alcuni amici mi prenderanno in giro. Ma tant’è, non riesco a non ascoltare le sue canzoni, e proprio quelle degli anni Sessanta tipo Blowing in the wind, The times they are a’changing, One of us must know, Like a rolling stone.

Non sono le canzoni della mia generazione, perché sono nato quando Dylan le cantò per la prima volta. Non sono state una bandiera della mia frattura generazionale. Per me sono qualcosa di diverso. Uno dei ricordi degli anni della prima adolescenza è Blowing in the wind cantata da me in solitudine, una mattina mentre camminavo in montagna: answers of my friend are blowing in the wind. Non ero più solo ma ero assieme a persone interessanti e misteriose con cui parlavo.

Altre canzoni le sapevo senza sapere come, come con i Beatles. Non so dire quando o come ho sentito Hey Jude o Yesterday. Sono tutte lì, nella mente e nel cuore degli uomini da tempi immemorabili e quando un musicista ascolta e le canta una scheggia dell’eternità ci commuove.

Torno a Dylan. Oggi lo ascoltavo dal cellulare viaggiando in treno e respiravo curiosità e audacia. Provavo uno struggente desiderio di viaggiare on the road, come negli anni Sessanta. Era il desiderio umano e millenario di verità, di scoperta, di amore. Mi sono commosso pensando alla vita che palpitava nella voce già antica di Dylan giovane e che mi ha dato sollievo da ragazzo. Mi sono commosso pensando al mio presente con le persone che amo. Mi sono commosso per il futuro con le persone che amo. Per le avventure che si aspettano.

costituzione, gatti e amore

In quel di Vilnius esiste un quartiere dotato di una propria costituzione. E’ la Costituzione della Res Publica di Uzopio i cui 41 articoli sono scritti in almeno una quindicina di lingue ciascuna su una lastra di metallo lucido: arabo, finlandese, greco e altre ancora.

Alcuni articoli fanno sorridere – 12: Il cane ha diritto di essere un cane. 13: Il gatto non è obbligato ad amare il suo padrone, ma deve essere di aiuto nei momenti di necessità – altri hanno formule più solenni – 17: Tutti hanno il diritto di essere infelici. 18: Tutti hanno il diritto di stare in silenzio.

Poi ci sono quelli conclusivi, che a rileggerli mi commuovo, chissà perché.

38: Tutti hanno il diritto di non avere paura

39: Non deludere

40: Non combattere

41: Non cedere

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esami di stato 10

Finiti gli orali studentesse e studenti raccolgono le loro cose, i fogli e i file della tesina, la carta d’identità, la borsa o la cartella e si avviano verso la porta. Prima di uscire si voltano per un istante per sbirciare i professori. Sperano di rubare un segno che permetta loro di divinare l’esito dell’esame.

Poi si avviano e sulla porta lanciano velocemente ancora uno sguardo verso quel mondo che si sta chiudendo per sempre alle loro spalle. C’è la sorpresa, lo sgomento, di vedere 5 anni di vita che svaniscono rapidamente negli echi di una scuola svuotata e senza fuochi d’artificio, senza eventi eccezionali. Forse sperano in un segno che attesti il passaggio. Può essere stata la stretta di mano del presidente o l’augurio per il futuro o lo sguardo degli sconosciuti che da dietro dei banchi hanno ascoltato e valutato le loro parole e i loro volti? Hanno superato una soglia ma non sanno dire quando, dove o come sia avvenuto il passaggio. Forse durante l’interrogazione di italiano o quando hanno letto di essere stati ammessi all’esame o dicendo di aver compreso un errore degli scritti o chissà dove. Per un attimo camminano come sospesi sulla porta: svuotati del passato e pieni di speranze. Altre persone e altri eventi penseranno ai loro timidi sogni di oggi.

Tornano verso il pranzo a casa, come una qualsiasi altra giornata. Ma è tutto cambiato perché le trasformazioni più profonde riportano alla propria esistenza ma mutati.