Blues Brothers

Quando uscì questo film avevo 17 anni, o giù di li. Non capivo nulla aderendo perfettamente allo stereotipo dello studente presuntuoso, ideologico e convinto di essere libero nei propri giudizi.

Il liceo, poi, era stato un bagno nelle certezze politiche e sociali che cominciavano a incrinarsi dopo il rapimento Moro. Ma era soprattutto l’estetica a essere compromessa: impegno e commedia cinematografica americana erano del tutto incompatibili. Guai a ridere delle americanate!

Alcune battute, però, hanno superato la corazza dell’ideologia: “io odio i nazisti dell’Illinois”, “Le cavallette!”. E poi le musiche, e i musicisti James Brown, Cab Calloway, Ray Charles e Aretha Franklin. La inarrivabile Carrie Fisher. La distruzione del supermercato e l’inseguimento Blues Brothers da parte di tutti: polizia, esercito, Swat Team, nazisti, guardia a cavallo.

Per capire la grandezza del film ho impiegato decenni. La verità di quella cosa che è il bisogno di amare ed essere amati; la fatica di vivere fra oggetti tutti uguali quando ciascuno di noi è irrimediabilmente e inevitabilmente diverso e simile a tutti gli altri; la capacità di donare come atto di libertà.

Il film conteneva molto degli anni Ottanta e qualcosa di profondamente americano, nel bene e nel male. Io nel frattempo ho imparato che l’estetica è il primo luogo distrutto dell’ideologia.

stateless

Ho visto la miniserie di Netflix Stateless, apolide. E’ ambientato in un centro di detenzione di immigrati irregolari australiano, in un luogo imprecisato del bush. Kate Blanchet è produttrice e attrice.

Nel centro si intrecciano le storie di quattro persone, molto diverse fra loro: Sofie Werner, una hostess con gravi problemi psichiatrici che vuole fuggire dall’Australia e della famiglia; Ameer un rifugiato afgano partito con la famiglia in cerca di asilo politico; Cam Sandford, uomo sposato che inizia a lavorare nel centro come guardiano per mantenere la famiglia; Claire Kowitz funzionaria incaricata di indagare sui metodi del centro di detenzione.

In base alla legge australiana nel centro è trasferito chi è sospettato di vivere nel Paese senza adeguata documentazione. L’isolamento fisico dell’impianto, le dinamiche fra personale e immigrati, le pressioni politiche rendono il luogo un teatro di ingiustizie, violenze, sacrifici, dolore e solidarietà.

Tratta dalla storia vera di Cornelia Rau (nella serie Sofie), incarcerata illegalmente per dieci mesi fra il 2004 e il 2005, la serie, ideata dall’attrice Cate Blanchett, ambasciatrice dell’UNHCR, racconta la condizione dei migranti e richiedenti asilo in Australia prigionieri di un limbo estenuante, una gabbia in cui sono solo un numero. Una gabbia gestita da personale di un’agenzia privata.

Credo che questi luoghi infernali esistano e siano molti, di più di quelli che ci piace pensare. Se sappiamo qualcosa di questo è solo perché una donna australiana è stata ingiustamente reclusa.

Un giorno impareremo a credere anche a chi non è della nostra stessa nazione o non ci è simile.

enigma e storia

Un quadro che riassume l’origine e le conseguenze di un atto mitologico terribile che ha innervato la nostra storia.

Il volto di Edipo che interroga. Il suo corpo nudo, inconsapevole. Glabro.

La Sfinge fra le rocce in montagna o in un luogo impervio.

Resti umani che affiorano.

Un uomo che vuole fuggire.

Edipo che resta. Sicuro, estraneo a sé stesso e audace. Intelligente ma incapace di conoscere ciò che si cela fra le pieghe degli eventi e delle vite.

Tutto è terribile in questo quadro e in questo mito.

easy rider, nostalgia per ciò che non sono stato

Voglio tornare a quelle moto, a quella speranza che per essere liberi bastasse una moto, una giacca di cuoio, qualche centinaio di dollari in tasca.

E poi quelle strade lunghe, aperte, dritte fatte apposta per correrci alla velocità giusta: né troppo lenti né troppo veloci. Sentire con il corpo e la mente di essere ovunque nello spazio e nel tempo ma allo stesso tempo di respirare qui e ora, immersi nel profumo del sole, della notte e della vita.

E quella bella sensazione degli stivali appoggiati sul pianale della moto che viaggiano sulla strada come se fossero i calzari di Mercurio.

E quella giacca di cuoio che sei come un Dio fra gli uomini e una tentazione per le donne.

Ma sopratutto la libertà di viaggiare, perché quello che conta non è la destinazione ma il viaggio, iniziarlo e proseguirlo. Oggi, domani e anche ieri.

Ma poi li hanno uccisi quei due che viaggiavano liberi, con i loro stivali e tutto il resto; loro che viaggiavano senza offendere nessuno, senza altra bussola che gli stivali e la moto.

Vorrei averle provate queste sensazioni, sulle strade degli Stati Uniti con quelle moto, con quelle giacche e quegli stivali.

Vorrei averla provata quella libertà assoluta come ti accade una volta nella vita quando sei giovane e non sai ancora tutte le necessità che ti porti nella carne fin dalla nascita.

Fra tutte le musiche inserisco The Ballad of Easy Rider perché suggerisce qualcosa di quella libertà che forse consiste nel lasciarsi andare al fluire della vita e della morte: The river flows, it flows to the sea/Wherever that river goes that’s where I want to be. Libertà è essere tutt’uno con l’essere? A margine: questi due versi sono di Dylan.

.

Goethe, dietro le quinte

Per una delle tante coincidenze che capitano nel tempo, mentre ricordo gli eventi dietro le quinte della mia esperienza teatrale in gioventù, incappo in una riflessione sul rapporto fra vita, teatro che tocca lo stesso argomento. E’ tratta dal libro di Vittorio Mathieu Goethe e il suo diavolo custode, Adelphi, Milano, 2002, pagina 126.

Sulla scena si muovono gli attori, e l’azione si svolge in un tempo che, per chi guardi dall’esterno, è immaginario, mentre per l’azione scenica è reale. Ma lo spiegamento spaziotemporale sulla scena non sarebbe possibile senza un rapporto continuo con ciò che avviene dietro il palcoscenico, e che sulla scena non si deve vedere. Anche ciò che avviene nel retropalco è un insieme di movimenti, ma il tempo e lo spazio di questa azione sono immaginari rispetto a quelli della scena, e viceversa. In geometria si introduce un operatore comunemente indicato come i, o √-1, che trasforma un numero reale in un numero immaginario, facendo ruotare la retta dei numeri di novanta gradi. Scrivendo ad esempio ib, indico l’immaginario di b , e così via. Grazie a questo schema, della rotazione di 90°, si scorge che l’immaginario (o ‘chimerico’, o impossibile, ecc.: tutti aggettivi attribuiti ai numeri che noi chiamiamo immaginari) è nulla nella dimensione del reale e viceversa, perché si espande in una diversa dimensione sua; componibile, peraltro, con la dimensione del reale. In questo senso diremo che i movimenti e i tempi che si svolgono sul retropalco sono ‘perpendicolari’ a quelli che avvengono sulla scena, sulla quale non risultano. Sono, gli uni rispetto agli altri, immaginari.

dietro le quinte

Recitare è una parte della vita di chi “fa teatro”. Un’altra parte è il “dietro le quinte”: le prove, le luci, gli amplificatori, le scelte di regia, i marchingegni e i trucchetti per fare apparire e scomparire oggetti e attori in scena. Ed è qui che si gioca gran parte della cosa.

Il “dietro le quinte” è uno scenario simile alla fucina di Efesto in cui a partire da parole scritte sulla carta si dà corpo ad azioni, gesti, vita passando attraverso una lotta paziente e faticosa con il fisico, la voce, le luci, le reazioni istintive, le manie personali, gli oggetti, il tempo e i rapporti fra le persone. Il termine “prove” deve essere inteso nel suo significato primario: attori, regista e tecnici procedono per tentativi, alcune cose funzionano, altre no. Alla fine lo spettacolo diventa un essere vivo.

La creazione, per quanto riguardi qualcosa che per comodità chiamo “spirito”, anche se in modo del tutto improprio e per nulla “spirituale”, è quanto di più concreto, contingente, gioioso, ossessivo e faticoso abbia sperimentato in vita mia. Elenco per voci alcuni fattori.

Lo spazio

La compagnia di Alberto Negro non aveva un proprio teatro quindi abbiamo provato in qualsiasi tipo di luogo, purché ci fosse uno spazio abbastanza ampio: scuole, cinematografi abbandonati, la Manifattura tabacchi di Torino, centri sociali. Il tutto nell’incertezza: una volta ci rubarono tutta l’attrezzatura – quadro per le luci, monitor e quant’altro. Dovevamo andare in Svizzera e fu una tragedia economica ed emotiva. Il materiale rubato era di uno spettacolo assai complesso per trama, allestimento, effetti speciali, e poi lo provammo nella sala di un cinema di una cittadina vicino a Torino. Era inverno e in quella sala grande e dismessa faceva un freddo che non ti dico. Ricordo Alberto che, avendo piazzato una stufetta elettrica al centro della sala, diceva “Ora si spacca il freddo e lavoriamo bene”. Alberto è sempre stato un inguaribile ottimista.

Tirare i cavi

Abbiamo tenuto spettacoli nelle scuole, in teatri di provincia, a Porta Nuova, in sale destinate ad altri scopi. Arrivavamo dove dovevamo recitare qualche ora prima dell’inizio per montare le quinte e le luci, puntare i fari, provare il suono e infine truccarsi. Una volta concluso lo spettacolo, ci si struccava e si procedeva a smontare il tutto. In genere attrezzatura, quinte, cavi, banco luci stavano dentro un furgone rosso, il Volkswagen T1 degli anni Sessanta. La frase “Dobbiamo tirare i cavi” significava distendere i cavi elettrici dal banco luci in sala ai fari sul palco; puntare le luci e poi fissare i cavi a terra con il nastro adesivo. Il banco elettrico era una scatola di ferro con dei potenziometri e degli interruttori. Se un qualsiasi addetto alla sicurezza lo vedesse oggi fuggirebbe.

Gli attori

Senza di loro non c’è teatro. Alberto aveva la capacità di mettere assieme persone diversissime fra di loro per cultura, origine, stile di vita, carattere. Se devo essere sincero, alcune non le avrei mai frequentate, se non fosse stato per lui. Fra l’altro non ho mai capito dove le conoscesse. I ricordi sulle persone meritano un discorso a parte. In questa breve escursione, ricordo il continuo cercare di coniugare le personalità di ciascuno nello spettacolo.

Faust, Goethe

Le conclusioni delle opere rivelano molto delle opere stesse. In questo caso abbiamo il Chorus Mysticus, gli ultimi 8 versi del Faust di Goethe. Sono una sorta di meditazione da pronunciare a bassa voce, come un mantra. Ne fornisco due traduzioni in italiano. J.W. Goethe, Faust, II, atto V, vv. 12104-12111.

Ogni cosa che passa
è solo una figura.
Quello che è inattingibile
qui diviene evidenza.
Quello che è indicibile
qui si è adempiuto.
L’Eterno Elemento Femminile
ci trae verso l’alto.

Traduzione Franco Fortini, Arnoldo Mondadori, Milano, 1970.

Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femmineo ci attira in alto, accanto a sé.

Traduzione Giovanni Vittorio Amoretti, Feltrinelli, Milano, 1965.

teatro: i sette peccati capitali

Dopo Aldo dice 26 x uno, l’Anonima Teatro Studio fu coinvolta in altri progetti. Non è che capissi molto ciò che accadeva perché ero più interessato a stare fuori casa. Poi dire “faccio teatro” mi dava una certa importanza, almeno ai miei occhi.

Fui contattato, non so perché, da un regista di Vinovo o di una cittadina nei pressi. Mi chiese se volevo fare un Pierrot in uno spettacolo di mimo da tenersi in paese fra aprile e maggio. Accettai. Dello spettacolo ricordo che c’era un altro mimo, piuttosto gracile, che recitava il ruolo di una prostituta e la colonna sonora con musica dei King Crimson. E anche una discussione con il regista su come una canzone di Neil Young, The needle and the damage done, potesse dissuadere dal drogarsi.

Poi ci fu Asti Teatro 3, anno 1981, con Alberto Negro. Come ho detto, allora non capivo ciò che accadeva, cosa c’era di interessante, le novità e i rischi. Alberto ideò un spettacolo in sette parti dal titolo “I sette peccati capitali” con un intento sperimentale: anziché sette repliche dello stesso spettacolo, sette spettacoli, mai più replicati, allestiti in sette punti della città di Asti dedicati ciascuno a uno dei sette peccati capitali. Anche in questo caso non esiste nessun filmato e c’è solo qualche foto di scena oltre che una scarna didascalia nel libro Il teatro e la città (la casa Usher, pag. 137), copertina nell’immagine. Però c’era del genio che combatteva volendo emergere a dispetto di un contesto non sempre favorevole.

Io mi trovai nello spettacolo di apertura, dedicato alla “Superbia”, con Alba Parietti. Già proprio con lei. E pensate che ero talmente avviluppato nei problemi della mia vita, che non sapevo chi fosse. Realmente. Io facevo il Pierrot seduto su una sedia dietro una serie di corde tese nel cortile di un edificio d’epoca; dovevo alzarmi, rivolgermi verso il pubblico fare delle azioni e poi appariva la Parietti, superba nella sua bellezza, che mi cacciava. Lo spettacolo si teneva all’aperto e cominciava poco dopo il tramonto; per esigenze di regia dovevo essere in scena prima che il pubblico entrasse e restare immobile fino a quando non fosse partito il segnale di inizio spettacolo. Mi trovai bianco vestito, in costume da Pierrot, seduto su una sedia; fermo come un baccalà; in attesa.

La preparazione allo spettacolo fu particolare. Mi truccò Iaia Corso, nipote di Gregory Corso e costumista della RAI, che mi disse di essere stata una groupie in una tournée dei Rolling Stones. Mentre mi impiastricciava i capelli con un uovo e il viso con il fondo tinta bianco, raccontava quanto preferisse gli Stones ai Beatles. Io ascoltavo un po’ preoccupato ma in fondo affascinato.

Lo spettacolo piacque. I fotografi scattarono molte foto a me e alla Parietti. Dopo lo spettacolo, per togliermi il trucco mi lavai a una fontanella per strada. Il freddo mi fece venire mal di denti ed ebbi una guancia gonfia per tutta la settimana. Sembravo un criceto umano. Alberto approfittò della cosa e mi fece recitare nello spettacolo dedicato alla “Gola”, in cui un attore, già piuttosto sovrappeso, mangiava per un’ora. Io ero uno sguattero deforme. Lo spettacolo si tenne in un piccolo chiostro sconsacrato che dopo il nostro passaggio era cosparso di pane, carne, pesce, vino, dolci. Cibo non mangiato, sbocconcellato.

Conobbi la concretezza del teatro; sentii vicino il respiro del pubblico; il sudore e la fisicità degli attori e delle persone che circondavano la scena; il gioco di sguardi fra attori e spettatori. Erano i tempi in cui si voleva abbattere la parete fra attore e spettatore. Negli anni successivi Alberto Negro cambiò stile ma già allora c’erano elementi di rottura rispetto alla moda teatrale imperante perché nei suoi spettacoli attori e spettatori erano vicini ma allo stesso tempo separati da oggetti scenici, da quinte trasparenti, dai residui di cibo, dalle corde. Alberto rappresentava dei conflitti: la distanza nella vicinanza; eliminava la quarta parete ma per ricollocarla in altra forma. Era interessato a rendere visibili gli scontri e i conflitti.

il primo spettacolo teatrale

Arrivo al primo spettacolo teatrale della mia vita: Aldo dice 26 X 1. Il titolo fa riferimento al messaggio inviato dal CLNAI per ordinare che il 26 aprile all’una di notte sarebbe iniziata la fase finale delle operazioni militari contro i fascisti e i nazisti.

Lo spettacolo si tenne a Rivoli in piazza Fratelli Piol. Se non ricordo male le prove si tenevano nell’aula magna del mio liceo e poi nella piazza. Correzione: Antonella Bellan mi fa sapere che lo spettacoli si a Rivoli ma in Piazza Bollani e che le prove furono nella scuola E18 in Strada Antica di Collegno.

In quei giorni vidi Alberto all’opera per la prima volta. Mi colpì la sua capacità di mettere assieme persone provenienti da mondi diversi che in altre situazioni avrebbero forse perfino litigato. C’erano studenti di liceo, attori professionisti, un procacciatore d’affari, un trio di cantanti e musicisti. E tutti questi non solo lavoravano assieme ma sentivano di partecipare a qualcosa di significativo. Soprattutto allestì uno spettacolo che risultò professionale con attori che non erano attori professionisti. Ma non seguiva lo stile di Pasolini che sceglieva volti “popolari” da mostrare come archetipi umani incorrotti. Piuttosto sgrossò gesti e parole adattando le scene alle persone in modo tale che emergesse qualcosa di essenziale della vita dei partigiani.

Del resto, per preparare lo spettacolo, Alberto e Antonella avevano intervistato dei partigiani dalle cui storie erano stati presi episodi reali poi montati in una storia.

Fu un successo. I partigiani che lo videro si commossero perché era stata rappresentata la verità umana e storica. Ci furono un paio di repliche. Non mi pare ci sia un filmato ma solo delle foto di scena. Conobbi il teatro che passa attraverso disperazione, estasi, commozione e gioia per poi essere dimenticato appena spente le luci. Questa forza immediata che incide la mente e il cuore delle persone e poi scompare.