Poi alla fine si arriva sempre a questo momento: l’esame di stato. Quando lo sostenni io si chiamava esame di maturità. Ora esame di stato e se le parole non sono solo etichette con la diversa definizione si ha un diverso significato.
Non è che noi allora fossimo maturi dopo l’esame; non è che loro oggi siano consapevoli di cosa sia lo stato. Ma l’esame resta sempre lì, come una soglia fra condizioni psicologiche, culturali, sociali oltrepassata la quale l’individuo non è più lo stesso.
Ci sono sempre delle novità, perché ogni Ministro deve lasciare il proprio marchio indelebile sulla scuola. I questo caso abbiamo le “buste”: all’orale i ragazzi dovranno scegliere una busta fra tre, ciascuna con un documento (immagine, poesia, problema) unico, da cui prendere le mosse per parlare. Sarà l’apoteosi dell’imbarazzo e dell’improvvisazione. Questa decisione è l’espressione di una mentalità che colloca al vertice delle competenze la dichiarazione a effetto, l’istrionismo, l’improvvisazione a scapito dell’analisi paziente e laboriosa. E pensare che insegno una materia che mette al proprio centro la “fatica del concetto”.
Temo questa visione dell’esame come occasione per improvvisare; siamo alla concezione dell’italiano creativo che improvvisa. Tutto l’opposto di ciò che uno stato ha bisogno per vivere oltre l’immediato e non soccombere nella competizione internazionale: programmazione e visione strategica. Ma forse sto esagerando.