generazioni

L’altro giorno inizio in una classe una serie di lezioni sul tema dello stato: Platone, Aristotele e giù di lì. Per introdurre l’argomento faccio un brainstorming a partire da una frase che ho scritto alla lavagna: “cosa rende migliore un governo?”

Chiedo a tutti uno per uno e ne emergono le seguenti aree:

  • organizzazione;
  • onestà;
  • multe progressive per reddito;
  • ordine.

Alla fine chiedo: “Ma avete paura della libertà?”

La classe resta in silenzio. Poi uno dichiara “Si” un altro chiede “Quale tipo di libertà?”

Per la mia generazione la parola chiave era libertà.

The Who, Slip kid. No easy way to be free.

navigare, mare e musica

Il tema del navigare appartiene alla cultura inglese, per evidenti ragioni geografiche e politiche. Inoltre il mare, il rischio e il desiderio del navigare oltre il confine terrestre del noto assume contorni metafisici. L’immagine di Doré per The Ryme of the Ancient Mariner in testa riassume il fascino colmo di terrore e ammirazione che il mare ispira. Ritroviamo il mare con il suo carico inquietante in alcune canzoni rock e di rock progressive.

Procul Harum, A salty dog, 1969. Un viaggio per nave e la scoperta di una nuova terra. La musica è sospesa nel racconto dell’approdo e dell’esplorazione della terra sconosciuta. C’è qualcosa di misterioso, attraente ma anche inquietante. E se la pace dell’isola fosse il fascino paralizzante della morte?

King Crimson, da Islands, 1971. Un disco che si rifà esplicitamente all’Odissea e molto dibattuto fra i critici perché diverso da quelli precedenti, come un viaggio per mare che abbandona le terre conosciute. Seleziono tre brani.

Sailor Tale. Un brano rock selvaggio, ruggente e aspro. Il tintinnare dei piatti all’apertura fa capire che il racconto del marinaio non sarà rassicurante ma ciò che perde in serenità guadagna di forza.

Prelude, Songs of the Seaguls. Un quartetto di musica classica. Gabbiani che si librano composti nel vento illuminando il mondo con una misura cristallizzata e in fondo lontana perché artificiale. Il gabbiano ucciso ne The Ryme qui diventa un ricordo lezioso.

Islands, un’isola così bella non si era sentita, e vista, mai. Si resta attoniti ad ascoltare l’estasi senza tempo che crescendo riempe ma incatena. Il dialogo alla fine, con una traccia fantasma, rompe l’incanto estatico. Island è il titolo e nelle isole si incappa in incanti sfuggenti.

Poi ci sono gli amati, e odiati, Pink Floyd. In due canzoni di The Wall.

In Another Brick in the Wall 1, l’oceano è il confine pauroso oltre il quale il padre di Roger Waters muore lasciando solo il figlio. Il mare ha un lato avventuroso, dai risvolti metafisici il cui contatto ha un costo doloroso per chi resta: il marinaio muore e lascia solo chi resta a terra.

Poi Confortably numb, mentre Pink è nella penombra della coscienza fra dolore, farmaci, droghe, ricordi e deliri emerge l’immagine una distant ship che evoca viaggi per mare. Ma l’attrazione del viaggio per mare, forse per ritrovare il padre morto, si scontra con l’immobilità dolente della consapevolezza degli scacchi dell’esistenza.

poi un professore si stanca anche

Si stanca delle griglie di valutazione; della campanella che suona sempre sul più bello; del fantasma del “programma” che incombe come un avvoltoio sulle speranze di comprensione; di idee che non staranno mai nelle ore d’insegnamento; di voti che non dicono nulla se non la difficoltà di comprendere ciò che si è studiato; dei colleghi con cui non si riesce a parlare; della solitudine autoreferenziale in cui si contorce; del linguaggio povero con cui lotta; della mancanza di feed back; delle leggi che manco fai tempo a capirle che le hanno già cambiate; delle leggi scritte in base a chissà quali accordi; dell’ossessione tutta burocratica e paranoica di documentare ogni cosa perché “è sempre possibile un ricorso”.

Certo che un professore si stanca e vorrebbe portare la classe a fare un giro in montagna per parlare delle idee, dei bei libri che ha letto, delle cose belle e brutte che ha visto; guardare le montagne e sentire l’aria fresca entrare nei polmoni. Oppure ascoltare assieme un disco di quelli che gli sono nella mente e nel cuore da anni e che però non collimano con quella roba del programma e dei voti.

Certo che un professore si stanca e quasi vorrebbe perdere tempo con la classe per discorrere di cose oziose ma che poi sono le sole davvero importanti.

Certo che a un professore succedono queste cose, sopratutto se insegna filosofia.

ne ho piene le mail

Mi capita spesso e ci casco sempre.

Mi accordo con gli studenti per usare la piattaforma Moodle nelle lezioni. Illustro le pagine, l’accesso, indico loro come scaricare l’applicazione. Poi c’è il momento cruciale: mi devono inviare una mail da un loro account così che io possa dare le chiavi d’accesso. A parte l’inventiva dei ragazzi – si parte da “fiorellino89” (che può significare che ci sono almeno altri 88 fiorellini precedenti) e passando dall’inevitabile “supermario78” si atterra su “20002001200220012000” – mi stupisce che le loro caselle di posta sono, in molti casi, piene zeppe. Così piene che se scrivo una mail spesso è non consegnata perché “user quota exceeded”, ovvero la casella del destinatario ha raggiunto il limite massimo di spazio disponibile e non può ricevere altre mail. Sono ragazzi, mi dico. Più abituati a usare Facebook, Istagram, Whats’up, Snapchat. Neanche sanno cosa sia la memoria, neanche sanno comunicare e non hanno coscienza delle buone maniere in fatto di relazioni e comunicazione.

Ma poi ci sono i colleghi. Gente maggiorenne, vaccinata, laureata, che parla, discute. Persone che sanno stare al mondo. O così sembra perché al momento buono appare il messaggio “user quota exceeded” ad avvisarmi che anche loro sono degli analfabeti comunicativi.

Una differenza: i giovani sono nativi digitali mentre i colleghi spesso sono “critici verso questa moda del digitale che tanto fra poco passa”. In tutti i casi, c’è una negazione della propria cittadinanza digitale.

le storie e i giorni di ciascuno

“Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”, scrisse Terenzio in una sua commedia. Duemila anni dopo James Joyce nell’Ulisse riprende questa idea parlando di Shakespeare ma aggiungendo cose che Terenzio aveva lasciando in ombra.

Siamo al capitolo “La biblioteca”, Stephen Dedalus parla di Shakespeare, delle sue tragedie e del rapporto fra l’autore e la sua opera. Stephen in uno dei monologhi della discussione dice:

Ogni vita è una moltitudine di giorni, un giorno dopo l’altro. Noi camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini, ma sempre incontrando noi stessi.
(J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Classici Moderni, Milano, 2016, pag. 229).

Il viaggio in noi e nell’umanità che si svolge giorno per giorno e e ogni giorno è un microcrono dilatato in macrocosmi individuali. Per quanto si cammini non si esce da sé stessi, implacabilmente. In qualche modo la ricchezza e la disperazione di questo vagabondare sulla stessa vecchia terra sono salvaguardati e contemplati nell’arte.

Una nota a margine: senza il teatro saremmo estranei a noi stessi.