Il buio attorno e nella siepe

Qualche tempo fa avevo scritto del libro Il buio oltre la siepe chiedendomi se è e quanto venisse letto.

La realtà è peggiore della fantasia: negli USA qualche madre chiede di eliminarlo dalle scuole perché c’è una terminologia razzista. Da quanto riporta l’articolo, la scandalizzata signora non distingue fra il valore letterario e la terminologia diseducativa. Fraintendendo completamente il significato di opera d’arte, aggiungerei io.

musica e libri

Leggere e ascoltare, e in una certa forma derivata, scrivere e ascoltare, mi paiono molto vicini, anzi quasi intrecciati. Durante l’adolescenza, la principale lettura dei miei pomeriggi era un libro di Pier Tacchini: I grandi della musica pop. Strutturato in modo molto semplice: gruppi e autori in ordine alfabetico ciascuno con discografia e descrizione dei dischi migliori e di quelli da evitare.

Per me è stato un riferimento per orientarmi nei gruppi e nelle tendenze. Ora è terribilmente datato e le osservazioni critiche di Tacchini non sono così articolate. Ma leggerlo allora mi ha fatto immaginare concerti epici, sessioni di studio irripetibili, vite di artisti tormentate e creative. Tutte cose molto adolescenziali. Ma c’era una strana e inspiegata relazione fra la parola e la musica.

perché mi piace insegnare filosofia?

Quest’anno dovrò insegnare sociologia, psicologia, antropologia culturale e pedagogia riducendo la filosofia. Mi spiace ma colgo l’occasione per cercare di rispondere a una domanda banale che non ho mai affrontato davvero.

Perché insegno filosofia? Alcune circostanze storiche e casuali mi hanno portato a questo lavoro, ma poi ho scelto e scelgo di insegnare questa materia difficile a ragazze e ragazzi recalcitranti. Nella mia vita ho fatto diversi lavori che poi ho smesso, mentre quando si è trattato di insegnare filosofia mi sono fermato. Perché?

La prima risposta è che mi piace il linguaggio e parte della filosofia gioca e sguazza nel linguaggio, con l’etimologia, con i termini e le definizioni. Alle volte inventa etimologie.

La seconda è che molte delle mie letture filosofiche mi hanno emozionato e trasmesso delle conoscenze significative e spesso illuminanti. Nulla di facile o veloce ma anni di letture, di studio e di fatica. Per esempio, Kant. Al liceo avevo cercato di studiare Kant, dico cercato perché a 17/18 anni non puoi capire la Critica della ragio pura, la Critica della ragion pratica e men che meno la Critica del giudizio. L’unica cosa che mi ha fatto pensare del Kant del liceo è stata la sua capacità quasi ascetica di oggettivare i propri processi percettivi e mentali nella solitudine della propria stanza, tramite la scrittura. E allo stesso tempo di essere così profondamente in comunicazione con gli altri esseri umani. All’università sono passato attraverso la fatica della Pura per gli esami e poi mi è accaduta una illuminazione sulla deduzione trascendentale. Non so quanti anni dopo aver sentito per la prima volta il nome, ho compreso una cosa che ha scritto. E ne sono uscito trasformato.

La terza è che attraverso la filosofia sono coinvolto in uno scambio mentale con gli altri intimo e intenso. I concetti e i ragionamenti dei brani e dei manuali mi permettono di condividere un regno, un tessuto mentale di idee, concetti e significati che ci tiene assieme nelle differenze. Ma anche qualcosa di ulteriore: attraverso i ragionamenti e le parole “vedo” le persone con cui parlo, ne vedo la mind, per dirla in inglese.

Infine, gli studenti. Mi stupiscono positivamente. Ricordo frasi e concetti di molti. Per rompere il ghiaccio e iniziare a conoscere la classe che non conosco, all’inizio dell’anno chiedo cosa sia per loro la filosofia. E specifico che non voglio che mi ripetano quello che hanno studiato ma che cosa hanno elaborato personalmente di ciò che hanno, o non hanno, studiato. Una ragazza, diversi anni fa, mi lasciò senza parole quando rispose: “Per me la filosofia è un modo per entrare in relazione con la realtà”.

rileggere le affinità elettive

Non riguarda strettamente la didattica, ma è un libro bello.

Sto rileggendo le Affinità elettive di Goethe, che ho già letto almeno due volte e ogni volta scopro delle cose nuove. Un brano che mi ha colpito riguarda Edoardo, uomo maturo, sposato con Carlotta, il quale sarà travolto dalla passione per Ottilia. Il brano che riporto è successivo a un colloquio fra Edoardo e il capitano, suo amico riflessivo e pragmatico.

Edoardo avvertì in queste osservazioni un leggero rimprovero. Non disordinato di temperamento, egli tuttavia non riusciva a tenere le sue carte suddivise secondo la materia. Quello che andava trattato con altri, quello che dipendeva da lui medesimo, era tutto insieme, così come non sapeva separare gli affari dalla conversazione, gli impegni dal divertimento. La cosa diventava facile, ora che un amico se ne prendeva l’incarico, e un secondo io operava quella distinzione alla quale l’io unico non riusciva ad acconciarsi.

Un primo aspetto della psicologia di Edoardo: non è disordinato ma non mantiene le differenze. Il proprio e l’altrui sono confusi. E ho una domanda: possiamo interpretare questo come partecipazione empatica?