In primo luogo, ignoro chi siano le persone cui mi rivolgo e che in alcuni casi mi pongono delle domande. Talvolta, a fine lezione, durante l’intervallo resto in aula esausto a osservare chiedendomi come siano le loro giornate, i loro progetti, le loro sofferenze, le loro felicità. Goffamente eleganti nella vita che sta crescendo in loro, camminano cercando un’identità e un ruolo. Io cerco di figurarmi come potranno essere i loro volti tra 10, 20, 30 o 40 anni. Alcuni hanno espressioni già antiche; i profili di altri evocano quadri rinascimentali. Posso dire, per esperienza, che stanno attraversando un periodo cruciale dell’esistenza i cui risvolti si chiariranno nel corso del tempo. Avranno successo, non necessariamente sociale, se riusciranno a dire ed elaborare alcune delle emozioni profonde, delle correnti sotterranee che li stanno trascinando chissà dove: una rabbia contro i genitori; un amore inconfessato per il vicino o la vicina di banco; una vergogna sociale; magari l’imbarazzo per il proprio corpo e altro ancora. Ma per ora lottano con e contro se stessi mentre il docente, in questo caso io, cerca di inserirsi per indicare loro qualcosa, un concetto, un’idea, confidando nella plasticità neuronale della gioventù. Ma resta una lotta estenuante condotta in mezzo a resistenze psicologiche, fraintendimenti linguistici, fantasmi concettuali, debolezze adolescenziali, istinti inflessibili. Una lotta rischiosa, dall’esito incerto e dal percorso accidentato.
Poi c’è la densità di ciò che devo insegnare perché lo stato mi paga per farlo, cosa di cui sono veramente felice. Già trattare alcuni concetti è arduo: testi che hanno plasmato la vita occidentale e del mondo per millenni; definizioni e ragionamenti frutto di anni, decenni, secoli di analisi, revisioni, riflessioni; idee sui cui rimugino dal mio liceo per metterli a fuoco; il tutto condensato in 2, 3 ore di lezione. A peggiorare la situazione ci sono gli orari: un’ora di filosofia dalle 10 alle 11, magari dopo un’ora di matematica, una di storia dell’arte e prima di 3 ore di italiano. Come è possibile? Cosa possiamo sperare di ottenere? Come posso illudermi che gli studenti seguano? Per questo mi pare che nella maggior parte dei casi, gli studenti e le studentesse che incontro, facciano del loro meglio. Magari studiano a memoria alcune cose o balbettano una terminologia del tutto aliena, ma posso realmente giudicarli per questo? Comunque un tentativo fallito è qualitativamente diverso, oltre che distante anni luce, dall’inerzia di chi copia.
Di tutto ciò resterà al massimo l’immagine del professore conservata in una foto, in un ricordo; anche la sua voce a mano a mano svanirà. Fra 20 o 30 anni alcuni ricorderanno l’adolescenza, ma sarà più l’emozione per ciò che sono stati che non la memoria di ciò che un docente ha cercato di mostrare, e che magari ha modificato la loro vita. Per sempre.
Il mestiere che faccio è difficile, pericoloso e in qualche misura destinato a essere dimenticato.