Dopo gli esami gli studenti vanno incontro alla vita che li aspetta.
Alle volte c’è la morte.
E per oggi basta così.
Dopo gli esami gli studenti vanno incontro alla vita che li aspetta.
Alle volte c’è la morte.
E per oggi basta così.
Da giorni cerco di formulare una domanda che riguarda l’insegnamento della filosofia nelle scuole superiori. Cerco di scriverla con chiarezza.
In questi anni la vita pubblica italiana è stata progressivamente invasa da alcuni comportamenti che si è pensato si sarebbero ridotti o indeboliti con l’educazione e l’apprendimento: linguaggio violento, odio tribale, disprezzo per la scienza e la conoscenza in generale, deresponsabilizzazione, dismissione della responsabilità individuale, sordità emotiva.
E’ vero che la formazione scolastica non è l’unico garante della qualità della vita pubblica poiché questa è influenzata dall’andamento economico, dall’occupazione, dai media, dalla politica interna ed estera, da tradizioni. Inoltre vi è l’impatto dei social e delle distorsioni informative. Perciò non sovrastimo l’impatto sulle abitudini degli studenti e delle studentesse delle 4 ore settimanali in cui io, come altri colleghi, insegniamo filosofia e storia.
Quindi nessuna illusione. Allo stesso tempo è vero che ciò che accade in quelle 4 ore settimanali non è privo di effetti, alle volte duraturi. Il problema è quali. E da qui la mia domanda.
Cosa si è fatto, o non fatto, nell’insegnamento della filosofia e di storia che non ha ridotto o frenato l’astio sociale, l’odio per la conoscenza, lo scetticismo fanatico, il congelamento delle emozioni, la derisione dell’empatia?
Poi c’è una versione più sgradevole della domanda: è possibile che ci sia stato qualcosa che anziché sfavorire abbia favorito, nel suo piccolo, la situazione attuale?
È una questione di calendario molto semplice: a settembre iniziano le scuole. È cosa che ciclicamente suscita curiosità.
Tutta roba prevista e nota.
Eppure ogni anno i docenti si chiedono come saranno gli studenti, rivedono gli argomenti e poi si chiedono se, come, quando e con quali risultati.
Cioè ogni anno i docenti ci provano, ci credono. Cioè ogni anno ricominciare non è solo una questione di calendario, di tempo che scandisce i suoi impegni. Non si ricomincia tutti gli anni ma a ogni anno si inizia come se fosse la prima volta.
In questo articolo scrivo alcune riflessioni sulla televisione, considerata da molti in Italia in modo negativo. Non condivido questa opinione, esporrò sinteticamente le mie idee e poi concluderò con una domanda.
Giornalisti e uomini di cultura sostengono che la televisione, e la televisione di Berlusconi in modo particolare, abbia abbassato il livello culturale degli italiani, deteriorando, a catena, la qualità della partecipazione alla vita pubblica dei cittadini italiani.
Non riesco a trovare una relazione certa fra la causa – la televisione berlusconiana – e l’effetto – il peggioramento della cultura e del senso di cittadinanza degli italiani. Per diverse ragioni. In primo luogo, a seconda delle occasioni e delle circostanze questo stesso abbassamento viene attribuito alla scuola, a Internet, alla società dei consumi. Aggiungerei all’elenco dei pericolosi distruttori i Rettiliani.
Poi, molti ignoranti erano tali anche prima della televisione. E ignoranti non poco, proprio analfabeti. Del resto l’analfabetismo è stato un problema fin dall’Unità d’Italia e, guarda caso, fra il Sud e il Nord d’Italia. E che la cosa sia tutt’altro che facile da decifrare, è ulteriormente suffragato dall’intervista lasciata dal Prof. Nicola Grandi, linguista. La sua tesi è che l’italiano è lingua nazionale da circa un secolo e che la differenza fra Nord, alfabetizzato e Sud, dominato dai dialetti, è chiara fin da tempi immemori. La Repubblica ha avuto il merito storico di aver avviato un periodo di cambiamento profondo e radicale, ad esempio con l’istruzione obbligatoria, l’analfabetismo si è ridotto. I famosi “corsi delle 150 ore” corsi di alfabetizzazione per lavoratori adulti.
Ricorderei la famosa trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”, del Maestro Manzi.
Ma ora avrei una domanda: la famosa, e famigerata “Televisione di Bernabei” che:
Dal 1961 al 1974 fu direttore generale della RAI, allora unica emittente televisiva e radiofonica in Italia. In quegli anni la RAI produsse e trasmise programmi come Tv7 e sceneggiati tratti da grandi opere letterarie come l’Odissea, i romanzi di Tolstoj, di Alessandro Manzoni, di Cronin. Furono realizzate serie tv come: Atti degli apostoli per la regia di Roberto Rossellini; il Mosè; Gesù di Nazareth diretti da Franco Zeffirelli.
Tratto da Wikipedia, voce Ettore Bernabei.
Questa televisione culturale, non è stata seguita dagli Anni di Piombo? I devastanti anni di piombo possono essere spiegati da Bernabei e dalla sua televisione?
Usare i cellulari in aula durante le lezioni si fa da anni sia per iniziativa spontanea dei docenti sia su “permesso” dei Ministri precedenti. In fondo queste atti istituzionali non fanno che presentare come innovazione quella che è una fotografia della realtà. Il tutto condito da quel falso modello analitico del “vantaggi e svantaggi del digitale”.
La vera novità sarebbe una trasformazione delle aule, del corpo docente e delle case editrici all’altezza della Quarta Rivoluzione che ci sovrasta trascinandoci chissà dove.
https://www.orizzontescuola.it/il-miur-promuove-uso-corretto-cellulari-e-informa-su-rischi-salute/
Qualsiasi commissione d’esame deve selezionare e assegnare valore.
Per fare ciò la commissione legge, discute e scrive. Ascolta gli studenti e parla.
Le buste hanno il pregio di mettere in primo piano quello che tutti sanno quando si tratta della vita e delle sue prove: la casualità come fattore determinante.
Allora si fa il possibile come sempre. La benevolenza e la pazienza fanno il resto.
Sono iniziati.
Termineranno. E questa è la consolazione.
La questione delle buste può essere una ghigliottina; un letto di Procuste; una coppia di manette; un mezzo delirio; una salvezza.
Nella foto i disegni del docente che segue.
Preparare l’esame di stato significa partecipare a riunioni. Le riunioni sono esercizio di pazienza e sfoggio.
Quindi, preparare l’esame di stato significa partecipare a esercizi di pazienza e a sfoggio.
Poi alla fine si arriva sempre a questo momento: l’esame di stato. Quando lo sostenni io si chiamava esame di maturità. Ora esame di stato e se le parole non sono solo etichette con la diversa definizione si ha un diverso significato.
Non è che noi allora fossimo maturi dopo l’esame; non è che loro oggi siano consapevoli di cosa sia lo stato. Ma l’esame resta sempre lì, come una soglia fra condizioni psicologiche, culturali, sociali oltrepassata la quale l’individuo non è più lo stesso.
Ci sono sempre delle novità, perché ogni Ministro deve lasciare il proprio marchio indelebile sulla scuola. I questo caso abbiamo le “buste”: all’orale i ragazzi dovranno scegliere una busta fra tre, ciascuna con un documento (immagine, poesia, problema) unico, da cui prendere le mosse per parlare. Sarà l’apoteosi dell’imbarazzo e dell’improvvisazione. Questa decisione è l’espressione di una mentalità che colloca al vertice delle competenze la dichiarazione a effetto, l’istrionismo, l’improvvisazione a scapito dell’analisi paziente e laboriosa. E pensare che insegno una materia che mette al proprio centro la “fatica del concetto”.
Temo questa visione dell’esame come occasione per improvvisare; siamo alla concezione dell’italiano creativo che improvvisa. Tutto l’opposto di ciò che uno stato ha bisogno per vivere oltre l’immediato e non soccombere nella competizione internazionale: programmazione e visione strategica. Ma forse sto esagerando.
Come per qualsiasi professione, solo chi la svolge ne conosce la fatica. È solo fra pari che ci si può comprendere. Gli altri ricorrono a frasi fatte, anche quando sinceramente vogliono essere vicini. Le frasi fatte sull’insegnamento sono tante, ne elenco alcune con a fianco il grado di fastidio che mi suscitano, da 1 a 5, e un breve commento.
Ne conoscete altri? Scrivete sotto che rimpolpo la lista. Grazie.