scuola che cambia: e le superiori?

Ho acquistato un periodico nuovo, Vita, che, come riporta nell’intestazione, è un portale di Sostenibilità sociale, politica ed economica. Ne ignoravo l’esistenza e dopo un passaggio sul sito, metto sito e rivista cartacea in quarantena: c’è un lungo articolo su Agamben e sul passaggio dalla biopolitica alla biosicurezza che mi lascia perplesso. Ma non è di questo che voglio scrivere perché è altro ciò che mi dà da pensare.

Il numero di settembre è dedicato alla scuola con tanto di titolo in copertina: “Una nuova scuola si può fare”. Condividendo la speranza acquisto la rivista. All’argomento “nuova scuola” sono dedicate 52 pagine su 98. Ben più della metà. Molti gli articoli e i temi toccati ma mi pare che qualcosa non torni, a parte un certo tono stucchevole che attraversa le descrizioni dei fantastici risvolti delle classi aperte, senza muri, con tecnologie avanzate, della collaborazione fra territorio, scuola, famiglie, associazioni, reti e altro ancora; a parte il sapore celebrativo legato alla totale mancanza di senso critico che almeno esponga un limite delle sperimentazioni o dei corsi innovativi. A parte queste e altre cose che posso sopportare nella misura in cui si tratta di fare breccia in abitudini, immagini e pregiudizi consolidati nei secoli per cui ora non è importante soffermarsi sugli aspetti problematici del cambiamento ma cambiare. Inoltre, mi dico, ben venga la diffusione di buone pratiche del mondo della scuola, altrimenti sommerso da luoghi comuni, semplificazioni sconcertanti e politiche superficiali. Dopo tutto questo resta un problema cui non so dare una risposta plausibile.

Dove sono le scuole superiori?

Nelle 52 pagine leggo interviste a dirigenti di scuole primarie, dell’infanzia, delle scuole medie. Ma dove sono i docenti e le esperienze delle scuole superiori? Possibile che non ci sia nulla di equivalente nelle scuole superiori? La mancanza dipende dai docenti delle superiori che “non sperimentano la scuola senza muri” oppure dai giornalisti che si soffermano alla fase della formazione dei ragazzi affidata al ciclo della scuola italiana con maggior riconoscimenti internazionali? Oppure i diversi ordini di scuola hanno mitologie proprie: le scuole elementari sono la curiosità fiduciosa dell’infanzia; le scuole superiori l’inquietudine colma di nostalgia di quasi uomini e donne in vista della “vita vera”.

Non so dare una risposta. Durante decenni di insegnamento nella scuola superiore, ho incontrato docenti conservatori, innovativi, rassegnati, spaventati, preparati, impreparati e altro ancora. E forse la mappa delle competenze e degli atteggiamenti nella scuola primaria non è così radicalmente diversa. Per me la maggior parte del lavoro in aula è consistito nella spiegazione e nella lettura di libri di testo, relativamente costosi, a studenti che legano la propria autostima al voto. Ho organizzato attività alternative (per esempio durante il lockdown), “fuori le mura della scuola” e ho avuto delle conferme, per esempio che gli studenti misconoscono la scrittura condivisa perché sono stati addestrati per anni a suddividere studio e lavoro di gruppo in ricerche individuali poi messe una dopo l’altra; che l’impegno delle persone non cambia a seconda della metodologia didattica, innovativa o tradizionale; che a proposte interessanti per me non necessariamente seguono risposte appassionate degli studenti. In sintesi, che fare previsioni e formulare leggi è sempre rischioso.

Detto tutto ciò, una domanda continua a frullarmi per il capo:

Dove sono i docenti che sperimentano nuove strade per le scuole superiori?

critical thinking e collaborative learning?

Il tema è: tutto ciò cosa ha a che fare con l’insegnamento della filosofia e la filosofia?

E, dopo diversi anni di post, blog, fake news e altre amenità, quali sono i limiti di questa impostazione? La condivisione collaborativa è la chiave unica dell’apprendimento?

L’articolo “Collaborative Learning Enhances Critical Thinking“, di Anuradha A. Gokhale, risale all’autunno del 1995 ed è stato pubblicato dal Journal of Technology Education (Volume 7, Number 1 Fall 1995). Prima di tablet, Facebook, Wikipedia e quant’altro espone una tesi poi divenuta fondamentale per il costruttivismo: esiste una relazione fra critical thinking e collaborative learning.

Nella definizione dell’articolo collaborative learning si riferisce “a un metodo educativo nel quale studenti con diversi livelli di prestazione lavorano assieme in piccoli gruppi per il raggiungimento di uno scopo comune. Gli studenti sono responsabili sia del proprio sia dell’altrui apprendimento. Così, il successo di uno studente aiuta gli altri studenti ad avere un successo.” Fin dal 1986 i sostenitori del collaborative learning affermano che esiste una stretta relazione fra questo metodo e il critical thinking (pensiero critico). La ragione può essere che i singoli contribuiscono a costituire il prodotto finale ricorrendo ai metodi chiave del critical thinking – discussione pubblica, esame critico delle delle conoscenze, valutazione di verità, pertinenza e validità.

La ricerca esposta nell’articolo esamina una ricerca empirica effettuata in classi delle scuole superiori statunitensi. La ricerca è strutturata in due classi: la prima che lavora seguendo il metodo classico dell’apprendimento individuale; la seconda che lavora in modalità cooperative learning. Diverse le classi e diversi gli obiettivi: per la classe “cooperativa” analisi, sintesi e valutazione di concetti; per quella “individuale” test a risposta multipla per verificare le conoscenze.

Il consuntivo alla fine dell’esperimento è così a favore delle classi “cooperative” da risultare imbarazzante: migliori i risultati ai test, conoscenze e competenze più stabili e più durature, ovvero maggiore autonomia.

Immagine: La scuola di Aristotele, di Gustav Adolph Spangenberg, tratta da “Scuola peripatetica” Wikipedia.

segreti: nello stato e nella persona

Questa volta non parlo delle intrusioni dei servizi segreti nella vita dei privati cittadini o nelle dinamiche politiche pubbliche. Questa volta riporto un documento che ho trovato per caso qualche tempo fa e che mi ha incuriosito perché tocca un aspetto della prassi comunicativa del web. Inoltre mi porta a proporre un’analogia fra condivisione dei dati fra agenzie di intelligence e pubblicazione dei segreti personali.

Scopro un testo della CIA sull’uso di blog e wiki nella comunità dei servizi segreti statunitensi. L’articolo fa riferimento a uno studio del 2005 “The Wiki and the Blog: Toward a Complex Adaptive Intelligence Community“, Studies in Intelligence, Vol 49, No 3, September 2005. La tesi è che le attività di intelligence sono più efficaci se gli agenti condividono le informazioni. La ventata costruttivistica, perciò, dovrebbe travolgere anche gli steccati fra i diversi uffici degli agenti segreti ed elevare la qualità delle operazioni.

Snowden in quegli anni lavorava o i iniziava a lavorare per i servizi segreti. Ma la sua storia dice altro rispetto alle intenzioni dichiarate. L’agente segreto non solo operava spesso da solo ma quando lavorava con altri doveva tacere sulla propria missione e lo stesso facevano i colleghi con lui.

Alcune riflessioni interrogative:

  1. È auspicabile che gli stati rinuncino a un livello significativo di segretezza e opacità in alcune aree delle proprie funzioni, anche quando tecnicamente possibile rendere pubblico eventi e persone?
  2. Ammettendo che si dia una risposta negativa alla 1, entro quali limiti la riservatezza deve essere garantita e quando si deve o può sollevare il velo del segreto?
  3. Qualunque sia la risposta a 1, James Bond è morto e sepolto. Se mai è esistito.

Infine, una riflessione sulla psicologia dell’individuo. Forse uno stato, e i suoi cittadini, possono accettare che vi siano aree di segretezza, ma se riportiamo queste considerazioni alla vita dell’individuo la prospettiva cambia. In questo caso, mi pare che tenere nascosti eventi della vita individuale, generi dolore ed estraneità nei rapporti fra le persone. Parlare pubblicamente eventi o aspetti di sé significa introdurli in un processo dinamico linguistico e argomentativo che soppesa le pretese e i portatori di verità, le implicazioni personali, le implicature e così via. Insomma assorbe in un discorso lo scandalo da tenere segreto diffondendo attorno a sé e in generale nel mondo gli echi del discorso.

Quando ciò non accade, il segreto resta blindato in una echo chamber dell’immagine negata. Lo spirito di Banquo che appare a tavola.

tablet e apprendimento

Leggo l’articolo di Gianni Marconato L’uso dei tablet migliora l’apprendimento? Pare proprio di no. L’articolo riferisce la ricerca Impara digitale – Monitoraggio, condotta della Bocconi nell’anno scolastico 2012/2013 e pubblicata nell’ottobre del 2013. Nel riportare il contenuto della ricerca della Marconato è corretto e anche la tesi di fondo – la qualità dell’apprendimento dei ragazzi non migliora con l’uso dei tablet – è condivisibile e in un certo senso già nota. Ma come per tutte le ricerche, è importante perché chiarifica e sistematizza intuizioni soggettive o non argomentate.

Sopratutto aiuta a sgombrare il campo da un fraintendimento relativo alle “nuove tecnologie” che non sono degli strumenti grazie ai quali l’apprendimento miracolosamente migliora ma sono strumenti che occorre sapere usare per vivere e operare nella realtà analogico-digitale in cui ci troviamo a esistere. In questo senso la cittadinanza digitale ha grande importanza, aggiungo io.

Saper usare le “nuove tecnologie digitali” richiede sviluppo cognitivo, maggiore sensibilità sociale e competenze comunicative evolute. Ma senza l’intervento del docente che motiva, incita, stimola e modula le attività a seconda delle persone, qualsiasi piattaforma resta inerte e anzi può diventare un ostacolo.

In conclusione qualche interessante scoperta della ricerca:

  • l’uso dell’italiano non cambia e si mantiene di buona qualità sia online che offline, a differenza delle materie scientifiche e della matematiche, che online sono insegnate con un metodo del tutto diverso da quello offline;
  • gli studenti con maggiori difficoltà possono giovarsi di più dell’apprendimento online rispetto a quelli già con buon rendimento. Forse perché le nuove tecnologie hanno un effetto novità che dà maggiori motivazioni.

come la scuola può usare wikipedia

Quando si tocca l’argomento Wikipedia in qualche modo si sa di cosa si parlerà: dibattiti sull’attendibilità degli articoli; diffidenza verso articoli scritti da sconosciuti; dubbi sulle fonti dei finanziamenti. Argomenti tutti leciti e comprensibili.

Inoltre uno studio sull’uso di Wikipedia mostra dati poco gradevoli per l’idea della costruzione sociale della conoscenza: pochi redattori delle voci; scarsa attitudine alla verifica delle fonti; pigrizia nella ricerca di informazioni oltre Wikipedia.

Ma per comprendere eventi e processi occorre cambiare prospettiva. Wikipedia, pur ammettendo i difetti e limiti, parte da un presupposto diverso: le persone, normali aggiungerei, sono i soggetti attivi nella produzione della conoscenza. Perciò non basta constatare la parzialità delle voci, l’incapacità degli studenti a cercare e verificare fonti. Se le persone non verificano le fonti occorre mostrare loro come si fa; se ci sono pochi redattori, occorre far fare l’esperienza di essere redattori. Leggo, dal sito Wikipedia, dell’esistenza di un progetto – Wikipedia Education Program – che dal 2010 coinvolge università di diverse nazioni. Gli studenti, assieme ai docenti, leggono, verificano, criticano gli articoli di Wikipedia. I dati riportati sono interessanti: più del 70% degli studenti ritiene questa attività più interessante e coinvolgente delle attività didattiche tradizionali; scrivere in inglese migliora l’uso della lingua; le ricerche sono effettuate in collaborazione con i docenti. La qualità degli articoli, valutata in base a linguaggio, presenza di fonti, informazioni documentate, è aumentata. Forse una buona soluzione.

Sopratutto, un modo di lavorare che implica un diverso modo di accostarsi alla conoscenza e alla sua produzione: studenti e docenti ora contribuiscono agli articoli; non sono solo lettori passivi ma produttori attivi. Come portare nelle scuole, e fra i docenti italiani, questo modo di agire e di studiare?

tecnologia, didattica e critical thinking

Ho letto l’articolo di Marco Dominici La lunga (e faticosa) strada delle tecnologie nella didattica e trovo diversi argomenti interessanti, per me due sono cruciali:

  1. perché i docenti non usano la tecnologia per insegnare.
  2. l’uso della tecnologia nella didattica è legato al pensiero critico.

Perché i docenti non usano la tecnologia per insegnare? Concordo con la tesi di Dominici: paura ovvero tecnofobia. Nelle diverse scuole in cui ho lavorato, incontro sempre degli irriducibili i quali non sapendo usare un word processor scrivono a mano relazioni che la segreteria “rende digitali”; i quali non sapendo scaricare un file dalla rete, chiedono aiuto per stampare il cedolino in PDF messo a disposizione dal Ministero. Per costoro Facebook è un pericoloso mistero; la LIM una novità senza senso;  internet peggiora la cultura e così via.

Sono dei dinosauri in via di estinzione? Non lo so, ma deridere o compatire chi si comporta come i Dodo dell’Era glaciale non è la soluzione. Come diceva Spinoza, occorre comprendere. Con costoro avvierei una discussione proponendo che storicamente nel contesto vitale dell’uomo la tecnica ha un ruolo centrale: accendere un fuoco è una tecnica, uccidere gli animali con un sasso appositamente scheggiato è una tecnica. Per analogia, la lavagna è una tecnologia comunicativa, forse rudimentale, ma comunque tecnologia dalle molte implicazioni e implicature, esattamente come la LIM. Certamente usare la LIM obbliga a cambiare modo di lavorare, a mettersi in discussione come docenti, ad aggiornarsi. Ma in gioco c’è la relazione fra studenti e docenti che si articolo come digital use divide, seprazione nell’uso del digitale. Da un lato del tavolo da gioco abbiamo i giovani che usano istintivamente tecnologie digitali ma riducono  internet a Facebook, pensano di conoscere youtube perché “fanno click” sul pulsante di avvio del filmato; dall’altro lato abbiamo docenti che maneggiano a fatica la posta elettronica, sventolano rischi spesso inesistenti o ingigantiti. Ma non occorre esasperare questa distanza, perché neanche gli studenti si lanciano entusiasti su tablet, iPad, lettori di ebook o sull’elearning. Il risulato è che la scuola non è in grado di preparare le persone a vivere nel presente e poi nel futuro. Ovvero i ragazzi non sanno come imparare. E lo si tocca con mano quando si tratta di effettuare una ricerca sul web, valutando la credibilità delle fonti o usare wikipedia come la nuova fonte certa di verità.

Con questo mi collego al secondo punto.

Il secondo punto interessante è il pensiero critico – critical thinking – di cui ho iniziato a occuparmi anche in riferimento all’uso delle tecnologie dell’insegnamento per la scuola del futuro. Mi fa piacere essere sulla strada giusta e non essere da solo.

Arte e e-learning

Dall’Università di Firenze una dissertazione finale sull’insegnamento della storia dell’arte in e-learning. Il progetto prevede l’allestimento di un servizio integrativo on-line di istituzioni museali. Vi è anche la finalità generale è spostare l’attenzione sui processi psicologici individuali di accostamento all’arte.

Trovo molto interessante l’integrazione servizi museali, e-learning e educazione artistica.

Per mio gusto personale, avrei aggiunto delle attività di “creazione-elaborazione artistica” in modo da sfruttare al massimo l’approccio costruttivista dell’e-learning oltre che per aumentare coinvolgimento delle persone. Forse ne sarebbero avvantaggiati sia i musei che i fruitori.