esami: alle volte ritornano

Non finiscono mai, come si ripete da tempo. C’è sempre un nuovo esame da sostenere e mentre si è sotto torchio l’esame è interminabile

Ma quest’anno è tutto diverso perché il “Covid”, la “didattica in presenza” e il “disastro formativo di questa generazione”. Disastro che può essere evitato solo con un esame. Si sa che gli esami purificano e questo esame odora di ordalia.

Poi ci saranno i post scandalizzati su:

  • Vestiti degli studenti.
  • Linguaggio degli studenti.
  • Preparazione degli studenti.
  • La DAD e gli studenti.

Poi ci saranno post indignati su:

  • L’esame di 7 anni fa.
  • L’esame di 22 anni fa.
  • L’esame di 33 anni fa.
  • La maturità dei tempi andati.
  • L’esame delle elementari di 50 anni fa e l’esame di stato del 2021.

Post indignati ovunque, comunque, dovunque, su chiunque.

scuola che cambia: e le superiori?

Ho acquistato un periodico nuovo, Vita, che, come riporta nell’intestazione, è un portale di Sostenibilità sociale, politica ed economica. Ne ignoravo l’esistenza e dopo un passaggio sul sito, metto sito e rivista cartacea in quarantena: c’è un lungo articolo su Agamben e sul passaggio dalla biopolitica alla biosicurezza che mi lascia perplesso. Ma non è di questo che voglio scrivere perché è altro ciò che mi dà da pensare.

Il numero di settembre è dedicato alla scuola con tanto di titolo in copertina: “Una nuova scuola si può fare”. Condividendo la speranza acquisto la rivista. All’argomento “nuova scuola” sono dedicate 52 pagine su 98. Ben più della metà. Molti gli articoli e i temi toccati ma mi pare che qualcosa non torni, a parte un certo tono stucchevole che attraversa le descrizioni dei fantastici risvolti delle classi aperte, senza muri, con tecnologie avanzate, della collaborazione fra territorio, scuola, famiglie, associazioni, reti e altro ancora; a parte il sapore celebrativo legato alla totale mancanza di senso critico che almeno esponga un limite delle sperimentazioni o dei corsi innovativi. A parte queste e altre cose che posso sopportare nella misura in cui si tratta di fare breccia in abitudini, immagini e pregiudizi consolidati nei secoli per cui ora non è importante soffermarsi sugli aspetti problematici del cambiamento ma cambiare. Inoltre, mi dico, ben venga la diffusione di buone pratiche del mondo della scuola, altrimenti sommerso da luoghi comuni, semplificazioni sconcertanti e politiche superficiali. Dopo tutto questo resta un problema cui non so dare una risposta plausibile.

Dove sono le scuole superiori?

Nelle 52 pagine leggo interviste a dirigenti di scuole primarie, dell’infanzia, delle scuole medie. Ma dove sono i docenti e le esperienze delle scuole superiori? Possibile che non ci sia nulla di equivalente nelle scuole superiori? La mancanza dipende dai docenti delle superiori che “non sperimentano la scuola senza muri” oppure dai giornalisti che si soffermano alla fase della formazione dei ragazzi affidata al ciclo della scuola italiana con maggior riconoscimenti internazionali? Oppure i diversi ordini di scuola hanno mitologie proprie: le scuole elementari sono la curiosità fiduciosa dell’infanzia; le scuole superiori l’inquietudine colma di nostalgia di quasi uomini e donne in vista della “vita vera”.

Non so dare una risposta. Durante decenni di insegnamento nella scuola superiore, ho incontrato docenti conservatori, innovativi, rassegnati, spaventati, preparati, impreparati e altro ancora. E forse la mappa delle competenze e degli atteggiamenti nella scuola primaria non è così radicalmente diversa. Per me la maggior parte del lavoro in aula è consistito nella spiegazione e nella lettura di libri di testo, relativamente costosi, a studenti che legano la propria autostima al voto. Ho organizzato attività alternative (per esempio durante il lockdown), “fuori le mura della scuola” e ho avuto delle conferme, per esempio che gli studenti misconoscono la scrittura condivisa perché sono stati addestrati per anni a suddividere studio e lavoro di gruppo in ricerche individuali poi messe una dopo l’altra; che l’impegno delle persone non cambia a seconda della metodologia didattica, innovativa o tradizionale; che a proposte interessanti per me non necessariamente seguono risposte appassionate degli studenti. In sintesi, che fare previsioni e formulare leggi è sempre rischioso.

Detto tutto ciò, una domanda continua a frullarmi per il capo:

Dove sono i docenti che sperimentano nuove strade per le scuole superiori?

apprendere filosofia con la didattica a distanza

La scuola in cui insegno si appoggia a Moodle per la didattica online che in passato ho usato per integrare attività online con la lezione in presenza. Le attività per i ragazzi erano: visione di filmati, condivisione di documenti e intervenire nei forum; ma queste erano sempre inserite nello schema consueto della “classica lezione frontale”. Se novità c’era, risiedeva nel definire un percorso fra argomenti slegati dal libro di testo mediante documenti e test disponibili solo online. Il lockdown mi ha dato l’opportunità di mutare la prospettiva poiché il centro del mio lavoro di docente è dovuto passare da “come insegno io” a “come apprendono gli studenti”.

La domanda dell’insegnamento della filosofia

In cosa consiste apprendere la filosofia? Ho scelto come riferimento l’affermazione di Kant per il quale si può, e si deve, insegnare a filosofare senza limitarsi a esporre le filosofie. Ovvero si possono portare gli studenti, con stimoli e discussioni, a porre domande su problemi e processi, ad analizzare concetti, metodi, idee e ragionamenti per trovarne condizioni, limiti e possibilità. Perciò ho proposto alcuni argomenti con l’intenzione di considerarli assieme agli studenti. In questo articolo espongo il corso sulla compassione.

La compassione

In verità avevo intenzione di trattarlo fin da prima del lockdown e perciò avevo predisposto alcune attività e documenti. Il lockdown mi ha portato a cercare un riferimento alla “realtà” più stringente. Un brano di Nussbaum tratto da L’intelligenza delle emozioni, (Il Mulino, capitolo “Compassione e vita pubblica” pag. 484 – 485) su compassione e vita pubblica nel quale l’autrice osserva che la compassione è assente dallo spazio pubblico statunitense, tanto nella discussione quanto nei comportamenti. Nella società statunitense, su malati, poveri, disoccupati, grava una censura, inesorabile e ostile, poiché sono giudicati come moralmente riprovevoli in quanto hanno rinunciato a dominare attivamente la realtà. Secondo la filosofa americana, in tale ottica la passività è da condannare. Quale antidoto a questo giudizio, allo stesso tempo emotivo e cognitivo, che colloca all’origine di molti processi di esclusione sociale, Nussbaum propone la tragedia greca che, mettendo in scena la lotta dell’eroe per la difesa o il ripristino della dignità umana messa in crisi o distrutta da eventi incontrollabili, suscita negli spettatori compassione, paura e partecipazione. In questo modo la filosofa, che riprende le teorie aristoteliche sulla catarsi, spera da un lato che uomini e donne sperimentino il senso del vivere assieme e dall’altro che la partecipazione alla lotta per la dignità favorisca il fiorire delle capacità umane.

Attività per i ragazze e ragazzi

Una volta letto il brano, ragazzi e ragazze devono valutare in una discussione su un forum dedicato se le osservazioni della Nussbaum valgono anche per lo spazio pubblico italiano. Studentesse e studenti hanno scritto sul forum dedicato ma ciascuno individualmente. Infatti, in parte per una mia distrazione, la classe ha inteso che ciascun intervento dovesse essere separato dagli altri e non essere scritto in un forum comune. In ogni caso è stato significativo che nessuno abbia letto gli interventi degli altri, credo per un malinteso senso della privacy. Mi pare segnali una delle difficoltà di fondo dell’apprendimento a distanza nel contesto scolastico italiano: la collaborazione. La concezione della costruzione sociale della conoscenza si arresta di fronte ad abitudini consolidate.

Tragedia

Filottete

Il brano della Nussbaum si rivela di ardua comprensione, sopratutto perché in generale non è nota la tragedia greca e e ancor meno il Filottete, cui la filosofa fa riferimento. Perciò divido la classe in quattro gruppi e affido a ciascuno di essi un approfondimento, come nell’elenco dato di seguito. Ogni gruppo deve riportare la propria ricerca in un wiki, per proseguire nell’attività di scrittura condivisa.

  • Quali sono le caratteristiche della tragedia greca? Quali gli autori? Come nacque?
  • Sofocle: chi era? Quando visse? La tragedia Filottete: trama e significato.
  • Aristotele: in quale libro tratta della tragedia? Quale teorie sostiene?
  • Shakespeare: periodo e caratteristiche della tragedia.

La difficoltà di questa attività è stata la competenza digitale in senso più stretto: pochi hanno messo a fuoco cosa significhi scrivere un Wiki mediante un editor online fornito di pagine di amministrazione, funzioni per l’inserimento di immagini, collegamenti e altre cose del genere. Nel complesso però, il lavoro arriva alla fine.

Musica

Successivamente propongo una canzone del gruppo Galactic, intitolata Does it Really Make a Difference? voce Mavis Staples. Alla fine dell’ascolto studenti e studentesse devono scrivere in un forum sulla piattaforma le proprie riflessioni sulla canzone: se e come ha a che fare con la partecipazione emotiva alle vicende altrui. Le osservazioni si concentrano sopratutto su cosa sia “fare la differenza” su alcuni aspetti del testo relativi alla solitudine e all’essere gli uni vicini agli altri.

Come definire la compassione

A questo punto del lavoro, si affronta di petto la compassione cercando di distinguere termini ed emozioni talvolta confusi o considerati come sinonimi. Gli autori di riferimento sono Freud, Scheler, Schopenhauer, Jaspers. I termini analizzati sono:

  • contagio emotivo;
  • compassione;
  • empatia.

Evoluzionismo: fitness inclusiva e altruismo

Per non limitare le discussione a schemi consueti ho scelto di aggiungere una parte sull’interpretazione evoluzionistica dei comportamenti cooperativi. Prendendo una strada diversa da quella del libro di testo, che si ferma a esporre il “darwinismo sociale” trascurando gli studi evoluzionistici del Novecento, ho esposto l’evoluzionismo di Darwin e successivamente la teoria della fitness inclusiva di Hamilton. La mia spiegazione via video era accompagnata da documenti, link e video sulla piattaforma.

E se la compassione fosse sbagliata?

Tanti buoni sentimenti rischiano di essere nauseanti. Inoltre non volevo appiattire il discorso sulle sole posizioni “pro compassione”. Perciò ho voluto aggiungere due autori critici nei confronti della compassione. Spinoza, per il quale: “nell’uomo che vive secondo ragione la compassione è per se stessa cattiva e inutile” perché non è altro che dolore, per cui “l’uomo che vive secondo ragione si sforza per quanto può di non essere toccato dalla compassione” come neppure dall’odio, dal riso o dal disprezzo, perché sa che tutto deriva dalla necessità della natura divina.

Successivamente la critica di Nietzsche che individua nella compassione una delle cause del risentimento e dell’odio fra gli individui.

Esercizio finale: scrivere sulla compassione

Dopo incontri video in sincrono, dopo scritture sui forum, dopo ascolti e documento condivisi, si è passati alla fase finale. Studenti e studentesse dovevano scrivere un testo con le proprie riflessioni sull’argomento. Di seguito riporto il testo del “titolo” del saggio.

Nel percorso attraverso la compassione abbiamo visto diverse posizioni e analisi sul quei sentimenti che in genere sono classificati come “empatia”, “compassione”. All’origine vi è la riflessione della Nussbaum sulla tragedia greca che ci educa alla compassione in quanto assistiamo alla lotta, talvolta destinata alla sconfitta, dell’eroe per difendere o riscattare la propria dignità di essere umano. In particolare l’eroe lotta attivamente per riscattarsi da un destino subito devastante e sovrastante.

Nella vita pubblica, osserva Nussbaum, non c’è spazio per la compassione verso le persone che si trovano in difficoltà, anche tragiche e disperate, le quali, anzi, spesso sono condannate moralmente, stigmatizzate, per le difficoltà in cui si trovano. Ne sono un esempio per la filosofia americana, l’atteggiamento di disprezzo con cui nelle società statunitense sono trattate i poveri, i malati privi del denaro sufficiente per curarsi e così via.

A partire da queste osservazioni abbiamo cercato di distinguere la compassione dai sentimenti di partecipazione apparente o addirittura di negazione della compassione, per esempio il contagio emotivo e altro ancora. Successivamente abbiamo preso in considerazione la compassione e la collaborazione come fattori significativi per l’evoluzione della specie umana.

L’ultimo contributo alla ricerca è un testo di Nietzsche che critica aspramente i “compassionevoli” in quanto la compassione suscita risentimento e rabbia nel compatito. Del resto la compassione viene criticata anche da Spinoza per il quale è la conoscenza che rende l’uomo libero mentre la compassione, o la derisione, lo rendono tengono nell’ignoranza.

La compassione, quindi, è un tema articolato che riguarda diversi aspetti della vita individuale e sociale e può essere un fattore di miglioramento della vita associata ma allo stesso tempo avere dei limiti o essere confusa con atteggiamenti remoti dalla partecipazione alla sofferenza dell’altro.

Facendo riferimento agli argomenti trattati in questo percorso scrivere un saggio sui limiti e le possibilità della compassione e del sul ruolo nella vita pubblica, se questa ha spazio oppure se viene rifiutata, se la si confonde con il contagio emotivo. Aggiungere delle proprie riflessioni sui limite della compassione. Nella stesura della relazione occorre fare riferimento ai concetti e alle riflessioni esposte nel percorso.

Conclusioni e riflessioni finali

Obiettivo dell’unità era duplice: da un lato avviare la scrittura condivisa di una ricerca su un argomento specifico, dall’altro la produzione di un testo filosofico sulla compassione. Per arrivare a questi obiettivi ho messo in atto diverse attività: lettura, ascolto, stimoli emotivi, varietà di fonti e punti di vista, video in diretta e video registrati.

Durante il percorso ci sono state alcune difficoltà: la scrittura condivisa non è facile da praticare sia per la poca consuetudine con la piattaforma sia per l’abitudine a “fare da soli ed essere valutati per il proprio lavoro individuale”. Devo, inoltre, essere onesto e mettere in luce il mio errore di fondo: troppo materiale, troppe attività messe in gioco e ciascuna impegnativa. Occorre bilanciare meglio la quantità di attività, il percorso.

La verifica finale. I “temi” hanno almeno riassunto le diverse idee, non sempre in modo completo o fedele all’originale, ma da questo punto di vista non è stato così diverso da certe interrogazioni. Pochi si sono davvero arrischiati ad assumere delle posizioni critiche. Occorre lavorare ancora molto.

la televisione peggiora le persone?

In questo articolo scrivo alcune riflessioni sulla televisione, considerata da molti in Italia in modo negativo. Non condivido questa opinione, esporrò sinteticamente le mie idee e poi concluderò con una domanda.

Giornalisti e uomini di cultura sostengono che la televisione, e la televisione di Berlusconi in modo particolare, abbia abbassato il livello culturale degli italiani, deteriorando, a catena, la qualità della partecipazione alla vita pubblica dei cittadini italiani.

Non riesco a trovare una relazione certa fra la causa – la televisione berlusconiana – e l’effetto – il peggioramento della cultura e del senso di cittadinanza degli italiani. Per diverse ragioni. In primo luogo, a seconda delle occasioni e delle circostanze questo stesso abbassamento viene attribuito alla scuola, a Internet, alla società dei consumi. Aggiungerei all’elenco dei pericolosi distruttori i Rettiliani.

Poi, molti ignoranti erano tali anche prima della televisione. E ignoranti non poco, proprio analfabeti. Del resto l’analfabetismo è stato un problema fin dall’Unità d’Italia e, guarda caso, fra il Sud e il Nord d’Italia. E che la cosa sia tutt’altro che facile da decifrare, è ulteriormente suffragato dall’intervista lasciata dal Prof. Nicola Grandi, linguista. La sua tesi è che l’italiano è lingua nazionale da circa un secolo e che la differenza fra Nord, alfabetizzato e Sud, dominato dai dialetti, è chiara fin da tempi immemori. La Repubblica ha avuto il merito storico di aver avviato un periodo di cambiamento profondo e radicale, ad esempio con l’istruzione obbligatoria, l’analfabetismo si è ridotto. I famosi “corsi delle 150 ore” corsi di alfabetizzazione per lavoratori adulti.

Ricorderei la famosa trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”, del Maestro Manzi.

Ma ora avrei una domanda: la famosa, e famigerata “Televisione di Bernabei” che:

Dal 1961 al 1974 fu direttore generale della RAI, allora unica emittente televisiva e radiofonica in Italia. In quegli anni la RAI produsse e trasmise programmi come Tv7 e sceneggiati tratti da grandi opere letterarie come l’Odissea, i romanzi di Tolstoj, di Alessandro Manzoni, di Cronin. Furono realizzate serie tv come: Atti degli apostoli per la regia di Roberto Rossellini; il Mosè; Gesù di Nazareth diretti da Franco Zeffirelli.

Tratto da Wikipedia, voce Ettore Bernabei.

Questa televisione culturale, non è stata seguita dagli Anni di Piombo? I devastanti anni di piombo possono essere spiegati da Bernabei e dalla sua televisione?

Miur e uso corretto cellulari

Usare i cellulari in aula durante le lezioni si fa da anni sia per iniziativa spontanea dei docenti sia su “permesso” dei Ministri precedenti. In fondo queste atti istituzionali non fanno che presentare come innovazione quella che è una fotografia della realtà. Il tutto condito da quel falso modello analitico del “vantaggi e svantaggi del digitale”.

La vera novità sarebbe una trasformazione delle aule, del corpo docente e delle case editrici all’altezza della Quarta Rivoluzione che ci sovrasta trascinandoci chissà dove.

https://www.orizzontescuola.it/il-miur-promuove-uso-corretto-cellulari-e-informa-su-rischi-salute/

Copenaghen: entrare nelle aule

Ogni volta che si visita una scuola estera gli istituti italiani ne escono massacrati. La scuola nella nuova zona di Orestad non fa eccezione. La zona è di nuovissima costruzione e sembra che i danesi ne siano particolarmente orgogliosi. Io l’ho visitata in una fredda giornata di marzo che anche i danesi ritengono degna di novembre, perciò mi pare meno vivace. Sarà anche la piatta pianura in cui giace Orestad ma non riesco ad apprezzare l’architettura, che in in alcuni edifici mi pare troppo squadrata. In lontananza si vedono edifici originali.

Entrati nell’edificio dell’Orestad Gymnasium si è inebriati dallo stesso odore di legno e cere per legno dei musei. Roba da restare senza fiato. Sono le 9 di mattina e regna la quiete. In una sala si tiene un esame: una cinquantina di studenti lavorano sui propri computer.

Siamo accolti da un simpatico e cordiale docente che ci guida nell’edificio. L’intera scuola è un open space in cui studenti e professori si muovono, studiano, fanno amicizia e vivono. Ci sono aule ma sono del tutto trasparenti per cui dall’esterno si vedono docenti e studenti lavorare. L’essere sotto lo sguardo di tutti esercita un controllo sociale notevolissimo. Ragazzi e ragazze scherzano e lavorano ma non si sentono rumori o schiamazzi. L’impressione è che qui si studi sul serio.

Assisto, assieme ai colleghi a una lezione di storia. L’argomento è la colonizzazione danese; la lezione si apre con la presentazione di un lavoro di gruppo: ogni gruppo ha dovuto scrivere una lettera destinata al re di Danimarca per invitarlo a eliminare la schiavitù. La lettera doveva essere accompagnata da un disegno dell’ipotetico mittente e doveva rispettare alcune semplici regole: attenersi a dei documenti forniti dalla docente, rispettare il linguaggio dell’epoca e fornire ragioni di vario tipo – economico, umanitario, morale, politico – ma in ogni caso con argomenti robusti. La lezione, tenuta in danese, è stata assai partecipata e allo stesso tempo composta. La spiegazione della docente si è sviluppata trattando il problema di come si formi una coscienza storica e tramite quali mezzi: radio,libri, televisione. Non c’era un solo quaderno. I ragazzi non usano libri di testo cartacei.

Ma poi ci sono problemi comuni. Il principale è che la scuola neanche in Danimarca è più un fattore di mobilità sociale.

Copenaghen: partire

Partecipo a un corso di formazione europeo dedicato alla didattica digitale. La modalità è decisamente innovativa e poco nota in Italia: job shadowing. Ma di questo parlerò nei prossimi giorni.

Sono partito con il bus diretto a Malpensa in una tiepida giornata primaverile di Torino per atterrare in una gelida terra nordica battuta da un vento forte e tagliente. E pensare che ho sempre pensato che tagliente fosse un’espressione letteraria un po’ stantia, invece le gocce d’acqua ti tagliano la pelle del viso senza pietà. Sotto metto due foto dall’aereo: una il paesaggio italiano e l’altra il paesaggio danese.

Come sempre mi accade quando esco dagli italici confini, ho la netta percezione di conoscere un modo civile, avanzato, laborioso e gentile.

Il terminal 2 di Malpensa un caos totale con code disordinate. L’arrivo all’aeroporto di Copenaghen è entrare in un mondo ordinato con distributori automatici di biglietti di bus e treni che puoi pagare in contanti, con carta di credito e bancomat.

E poi le bici. Quante biciclette nelle fredde strade. Aggiunegrò delle fotografie.

segreti: nello stato e nella persona

Questa volta non parlo delle intrusioni dei servizi segreti nella vita dei privati cittadini o nelle dinamiche politiche pubbliche. Questa volta riporto un documento che ho trovato per caso qualche tempo fa e che mi ha incuriosito perché tocca un aspetto della prassi comunicativa del web. Inoltre mi porta a proporre un’analogia fra condivisione dei dati fra agenzie di intelligence e pubblicazione dei segreti personali.

Scopro un testo della CIA sull’uso di blog e wiki nella comunità dei servizi segreti statunitensi. L’articolo fa riferimento a uno studio del 2005 “The Wiki and the Blog: Toward a Complex Adaptive Intelligence Community“, Studies in Intelligence, Vol 49, No 3, September 2005. La tesi è che le attività di intelligence sono più efficaci se gli agenti condividono le informazioni. La ventata costruttivistica, perciò, dovrebbe travolgere anche gli steccati fra i diversi uffici degli agenti segreti ed elevare la qualità delle operazioni.

Snowden in quegli anni lavorava o i iniziava a lavorare per i servizi segreti. Ma la sua storia dice altro rispetto alle intenzioni dichiarate. L’agente segreto non solo operava spesso da solo ma quando lavorava con altri doveva tacere sulla propria missione e lo stesso facevano i colleghi con lui.

Alcune riflessioni interrogative:

  1. È auspicabile che gli stati rinuncino a un livello significativo di segretezza e opacità in alcune aree delle proprie funzioni, anche quando tecnicamente possibile rendere pubblico eventi e persone?
  2. Ammettendo che si dia una risposta negativa alla 1, entro quali limiti la riservatezza deve essere garantita e quando si deve o può sollevare il velo del segreto?
  3. Qualunque sia la risposta a 1, James Bond è morto e sepolto. Se mai è esistito.

Infine, una riflessione sulla psicologia dell’individuo. Forse uno stato, e i suoi cittadini, possono accettare che vi siano aree di segretezza, ma se riportiamo queste considerazioni alla vita dell’individuo la prospettiva cambia. In questo caso, mi pare che tenere nascosti eventi della vita individuale, generi dolore ed estraneità nei rapporti fra le persone. Parlare pubblicamente eventi o aspetti di sé significa introdurli in un processo dinamico linguistico e argomentativo che soppesa le pretese e i portatori di verità, le implicazioni personali, le implicature e così via. Insomma assorbe in un discorso lo scandalo da tenere segreto diffondendo attorno a sé e in generale nel mondo gli echi del discorso.

Quando ciò non accade, il segreto resta blindato in una echo chamber dell’immagine negata. Lo spirito di Banquo che appare a tavola.

salute, big data e humanities

Devo confessare che non mi sono mai occupato troppo della salute, ma molto sta cambiando anche in questo settore. Raccolgo qui una serie di articoli sull’argomento. Emergono temi complessi che trasformano il rapporto fra medico e paziente, il quale può non essere più una “malattia” ma una persona seguita giorno per giorno; la conoscenza che la persona ha della propria malattia e della medicina; il ruolo dei gestori dei nostri dati  (Big Data) e la privacy; ma anche il rischio che i dati della digital health divengano obiettivi del terrorismo. Aggiungo che anche la bioetica deve essere rivista.

Per alcuni questi può significare spersonalizzazione, la perdita di riflessione sulla morte, sul dolore o sulla malattia; ma non credo che sia necessariamente vero perché confrontarsi con dispositivi e programmi che ci ricordano, un po’ ottusamente, lo stato della nostra salute, ci impegna maggiormente anche sul piano dell’autocoscienza e del racconto di sé a sé stessi e agli altri.

  • Dal Sole 24 ore online Morire di ignoranza, di Luigi Roberto Biasio, e Gilberto Corbellini. Tesi di fondo: l’analfabetismo funzionale si riscontra anche nella scarsa padronanza del lessico e delle logiche mediche. Gli autori auspicano che termini, concetti e metodologie mediche siano introdotti fin dalle elementari.
  • Da pagina99 del 10 marzo 2017, Se è il paziente a decidere la cura, di Antonino Michenzi. Il Food and Drug Administration Safety and Innovation Act, voluto dall’amministrazione Obama nel 2012, permette di “in caso di malattie particolarmente gravi e senza adeguate risposte terapeutiche, approvare un farmaco anche in assenza di forti prove di efficacia.” Resta comunque la riserva che se il farmaco non dovesse mostrarsi, viene ritirato. Il principio è: i pazienti possono scegliere farmaci non compiutamente testati dalla FDA. Per molti questo atto può aprire la porta a farmaci e cure non testate o malamente verificate.
  • Da formiche, numero 123, marzo 2017, speciale I vantaggi della digital health. Articoli: Massimo Scaccabarozzi, “Dentro l’hub dell’innovazione”; Roberto Ascione, “Per una salute democratiche e hi-tech”; Fabrizio Landi, “Come gestire i big data umani”; Francesco Stronati, “Un assistente di nome Watson”.
  • Da AICA, Sergio Ferry, Digital for job: la privacy nella sanità digitale, file PDF: “Il 2017 e gli anni successivi saranno molto impegnativi per il settore sanitario perché si dovrà iniziare a implementare e rendere operative le innovazioni già approvate in ambito normativo, innovazioni che si inquadrano nel più ampio scenario della digitalizzazione della nostra Pubblica Amministrazione.”
  • Da nòva 24, 26 marzo 2017, Agnese Codignola, “Il futuro, in remoto, dell’ospedale”. Il cambiamento della medicina può trasformare la tecnologia in Human Information Technology. L’ospedale come luogo della gestione della crisi medica può svuotarsi e al suo posto ritorna, trasformato, il ruolo del medico il quale può essere al corrente in tempo reale dello stato di salute del proprio paziente. Il rapporto fra i due può farsi più intenso e continuativo negli anni.

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